La Primavera iniziò quando salì al
potere Alexander
Dubček, il 5 gennaio 1968, sostituendo il
presidente Antonín Novotný. Le riforme che promosse Dubček non erano
rivoluzionarie ma andavano contro la visione sovietica di controllo, non solo
dei mezzi di stampa, ma anche delle manifestazioni del libero pensiero.
Il nuovo Presidente, infatti, cercò di
favorire alcune richieste che provenivano dalla popolazione e in particolare da
circoli di intellettuali che chiedevano maggiore libertà di stampa, maggior
decentramento dei poteri amministrativi e la divisione della nazione in
Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca.
I dirigenti sovietici non videro queste
riforme come un lento ma inevitabile cambiamento storico bensì come uno
scollamento pericoloso e troppo radicale alla politica di allineamento decisa
con il
Patto di Varsavia.
I fatti
Negli anni ’60 la richiesta da parte di
larghi strati dell’opinione pubblica cecoslovacca di riforme politiche ed
economiche avevano iniziato a penetrare anche all’interno del Partito
comunista, ottenendo una risposta più forte di quello che il regime poteva
immaginare.
Rappresentante di tali richieste fu
Alexander Dubček che ricopriva la carica di Primo segretario del Partito
comunista regionale slovacco. Dubček sfidò apertamente il presidente Antonin
Novotny che attraversava un periodo di governo molto
difficile. La crisi economica aveva messo in seria difficoltà l’industria del
paese e il piano di direzione sovietico non era in grado di risolvere i
problemi strutturali della Cecoslovacchia. Inoltre la destalinizzazione operata
da tutti i Paesi del Patto di Varsavia era avvenuta con un strana lentezza in
Cecoslovacchia e aveva quindi aumentato il malcontento.
Il leader sovietico Leonid Breznev si
rese conto che Novotny aveva un’opposizione troppo forte per poter essere
sostenuto e inaspettatamente appoggiò Dubček. Quest’ultimo divenne Primo
Segretario del Partito comunista, il 5 gennaio 1968, mentre Novotny mantenne
per pochi mesi la carica di Presidente del governo; e il 22 marzo venne
sostituito da Ludvik Svoboda che appoggiò pienamente il suo segretario nelle
riforme che quest’ultimo aveva proposto: maggior libertà di stampa e
decentralizzazione dei poteri amministrativi statali.
Tali riforme e l’ampio consenso che
stavano ottenendo, non solo fra la popolazione e le classi sociali più agiate e
istruite ma anche di riflesso in ampi strati dell’opinione pubblica
occidentale, impensierirono i dirigenti del Partito comunista sovietico.
Breznev e il suo staff non ritennero che la Cecoslovacchia stesse apportando
modifiche radicali e contrarie all’ideologia comunista bensì si preoccuparono
della tentazione che tali riforme potevano indurre sugli altri Paesi satelliti
e sulla stessa popolazione cecoslovacca che avrebbe potuto chiederne altre e
più profonde.
Pertanto i dirigenti sovietici
incontrarono Dubček in tre occasioni durante le quali non rimasero soddisfatti
delle dichiarazioni e delle assicurazioni del Segretario. Dubček, infatti,
riteneva che le sue riforme non fossero pericolose per il Patto di Varsavia che
lui riteneva indispensabile e nei confronti dell’alleanza con l’URSS che non
pensava di tradire.
Il suo intento era quello di regolare in
modo più aderente alle esigenze territoriali l’intervento statale nell’economia
e di dare maggiore libertà alla stampa e attraverso quest’ultima di permettere
a intellettuali e artisti di esprimersi al di là dell’opinione, spesso sterile,
del partito.
Perché l’opinione dell’Unione Sovietica
era importante?
Dopo la Seconda Guerra
Mondiale Stalin rivendicò
il controllo degli Stati satelliti cioè di quei paesi dell’Europa in cui
l’Armata Rossa era penetrata e aveva respinto i tedeschi. Tale pretesa
portò alla Guerra Fredda cioè
alla divisione dell’Europa in due blocchi, uno sotto l’influenza sovietica e
l’altro sotto l’influenza dei governi americano e inglese.
La stessa Berlino fu divisa in quattro zone di
influenza controllate rispettivamente da Inghilterra, USA, Francia e URSS. In
linea con questa situazione Brežnev ufficializzò la dottrina secondo la quale
gli stati satelliti dovevano avere dei governi in linea con quello sovietico
sia in politica estera che in politica interna. Pertanto ogni governo,
benché eletto, doveva essere gradito al PCUS (Partito Comunista Sovietico).
Il governo di Dubček fu considerato
inizialmente vicino alla linea del Partito ma poi visto il tipo di opposizione
che incarnava fu ostacolato diplomaticamente e in seguito militarmente. Brežnev
ordinò l’invasione della Cecoslovacchia nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968.
Furono inviati circa 600.000 soldati che conquistarono rapidamente tutto il
Paese.
Non vi furono opposizioni di sorta
perché l’esercito era schierato a occidente, secondo gli ordini del Patto di
Varsavia, per presidiare le frontiere con
la Germania dell’Ovest mentre il Partito comunista cecoslovacco non aveva
alcuna forma di organizzazione militare. L’intervento armato avvenne mentre si
teneva una riunione celebrativa del Partito comunista cecoslovacco il quale,
per evitare lo scioglimento immediato, si riunì in un luogo segreto allo scopo
di ufficializzare il programma riformatore. Tuttavia la presenza militare
sovietica non aveva solo lo scopo di riportare indietro il Paese ma anche
quella di costringerlo a subire l’umiliazione di una sua presenza costante e
minacciosa a monito per gli altri Stati satelliti.
Una volta controllato lo Stato
cecoslovacco Mosca impose un proprio governo rappresentato da Gustav Husak che
abolì tutte le riforme del suo predecessore. Le conseguenza dell’invasione
sovietica della Cecoslovacchia ebbero un impatto emotivo molto forte in seno ai
Partiti comunisti occidentali, i quali videro alcune personalità rinunciare
alla tessera e disconoscere l’operato di Mosca.
Le ambasciate e
i governi occidentali protestarono in modo diverso gli uni dagli altri ma senza
troppo vigore per non spaccare l’equilibrio della Guerra Fredda che era basato
sulla mancanza di reciproci palesi interventi sulle politiche dei due
schieramenti.
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