Unicità e comparabilità
Amàn, consigliere del Re di Persia Assuero
(Serse I), tramando per liberarsi degli ebrei, convinse il Re a ucciderli
tutti. Però Ester, la moglie del Re, riuscì a ribaltare le sorti e salvare il
suo popolo. La festa di Purim è il ricordo di quella vicenda. Alberto
Nirenstejn scrisse che si festeggia Purim “in memoria della sconfitta di un
Hitler di oltre duemila anni fa” (A. Nirenstejn, Ricorda che cosa ti ha
fatto Amalek, Einaudi 1958). Allora non si considerava il dramma della
Shoah come un “evento unico”, ma una tappa di una lunghissima storia di odio
razziale e persecuzioni che, nel Centro Europa, non era terminata nemmeno con
la fine della guerra. Come aveva potuto constatare anche Nirenstejn, ritornando
in Polonia, l’antisemitismo non era cessato nonostante la maggioranza degli
ebrei, che abitavano quelle regioni, fossero stati ammazzati e la loro cultura
e luoghi di culto, distrutti.
Fu lo scrittore premio Nobel per la pace,
Eliezer ‘Elie’ Wiesel (1928-2016), sopravvissuto allo sterminio, che coniò, nel
1967, il concetto di “unicità”, scrivendo sulle pagine della rivista newyorkese
“Judaism”. Wiesel sostenne che lo sterminio ebraico doveva essere compreso
“come il riassunto dell’ esperienza ebraica, e che tale evento era stato
irrazionale e unico: un capitolo glorioso della eterna storia degli ebrei”. Si
è discusso molto in occasione della Giornata della Memoria dell’unicità della
Shoah. Per molti, la Shoah è un fatto unico e imparagonabile, per tanti aspetti
inspiegabile. Ma la Shoah non è un assioma, che impedisce di paragonarla ad
altri eventi del passato e del futuro. Paragonare non
significa mettere in discussione o sminuire e
nemmeno fare comparazioni di valore o di gerarchia.
L’amore per i paragoni, ha scritto Adriano
Sofri (“il Foglio”, 5/02/2020), si tira spesso dietro la perdita della misura:
“La conoscenza della Shoah ha cercato giustamente di mettersene al riparo, di
custodire una sua incomparabilità di quantità e di qualità. Argomento senza
fine”. Ma gli storici lavorano sempre tentando paragoni e analogie: “L’analogia
costituisce una forma essenziale di conoscenza, e in particolare lo strumento
principe della conoscenza storica”, ha scritto Luciano Canfora, in un
importante saggio di riflessione sul suo mestiere di storico (Analogia e
storia, il Saggiatore 1982).
L’analogia e la comparazione, riguardo
all’orrore dell’Olocausto, sono ovviamente molto difficili: per il peso immenso
del dolore e della ferocia. Ma il concetto di “genocidio” deve poter essere
usato soltanto per la Shoah? Non era questa l’intenzione di colui che coniò,
nel 1944, il termine genocidio: l’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin
(1900-1959), che aveva perso nell’Olocausto 49 famigliari. Fra il 1945 e il
1946 Lemkin fu consulente nel Processo di Norimberga e, grazie al suo lavoro e
al suo impegno è nata, nel 1951, la Convenzione per la prevenzione dei genocidi
delle Nazioni Unite e i tribunali internazionali.
Già prima della guerra Lemkin si era
interessato al massacro del popolo armeno tra il 1915 e il 1916 (“Chi si
ricorda oggi dello sterminio degli Armeni?”, chiese retoricamente Hitler ai
suoi ufficiali per spingerli alla soluzione finale della questione ebraica).
Secondo Lemkin, nonostante l’enormità dei crimini nazisti, dovevano esser
chiamati “genocidi” anche altri massacri di popoli: nel 1953, ad esempio,
qualificò come genociadiarie le politiche che Stalin condusse contro l’Ucraina
negli anni Trenta e che culminarono nella grande carestia del 1933-34 (Holodomor che
provocò 3,5 milioni di morti) e quelle della Turchia contro il popolo armeno
che causò circa 1,5 milioni di morti.
Ricordare la Shoah significava affermare
con forza che quanto era accaduto agli ebrei non avrebbe dovuto mai più
ripetersi per nessun essere umano. Il grande messaggio morale che veniva da
quella esperienza tragica era la necessità di impegnarsi a difendere, in ogni
angolo del mondo, la dignità umana.
Primo Levi ha tentato, in vari modi e con
amara lucidità, di parlare di questa unicità: “Non si può spiegare perché i
nazisti si preoccupassero di andare alla caccia anche dei vecchi e dei
moribondi, per trasportarli ad Auschwitz attraverso mezza Europa, e laggiù
ridurli in cenere. Non si può spiegare perché nella tragedia, e nel caos della
guerra ormai perduta, i convogli dei deportati avessero la precedenza sui
trasporti di truppe e munizioni. Soprattutto, e al di là di ogni esempio
animalesco, nessuno ha finora capito perché la volontà di sopprimere l’
‘avversaro’ andasse congiunta con una più forte volontà di fargli soffrire le
più atroci sofferenze immaginabili, di umiliarlo, di vilificarlo, di trattarlo
come una bestia immonda, anzi, come un oggetto inanimato. È veramente questo il
tratto unico della persecuzione nazista”. (P. Levi, Le immagini di
Olocausto, 1979, in: P.L., Opere complete, a c. di M. Belpoliti, Einaudi
2016, p. 1456).
Qualche anno dopo, difronte ai massacri in
Cambogia (“dove per puro fanatismo ideologico un popolo ha distrutto la metà di
se stesso, nel silenzio del mondo”), Primo Levi giunse a mettere in discussione
l’unicità e l’irripetibilità dell’Olocausto, e sembrò non più tanto sicuro
riguardo all’ impossibilità di un “ritorno di Auschwitz”: “Non credo che in
Europa ci si tornerà, almeno in un tempo prevedibile. Ma che la minaccia esista
è evidente. Il poco che sappiamo sulla Cambogia ricorda in modo pauroso quanto
è successo in Germania” (G. Calcagno, Primo Levi: capire non è
perdonare, “Tuttolibri”, 26/VII/1986). Fu, purtroppo, smentito da quello
che accadde, dopo la sua morte (1987), nella ex Jugoslavia: la guerra civile, i
massacri delle popolazioni, la violenza e l’odio che, ancora oggi, covano sotto
le ceneri.
L’attaccamento all’ “unicità” della Shoah
può indurre alla renitenza verso i genocidi e le atrocità di massa che, nel
mondo, si sono perpetrati e si perpetrano sotto i nostri occhi, e al tentativo
di prevenirli? Sofri ricorda come Tullia Zevi chiamasse la comunità ebraica, in
nome della sua memoria, a prendere posizione contro il massacro (e il
genocidio) in Bosnia. Marek Edelman, uno dei pochi sopravvissuti della rivolta
del Ghetto di Varsavia del 1943, negli anni Novanta, fece suo lo slogan
“Sarajevo come il Ghetto di Varsavia” e si recò laggiù con i camion che
portavano aiuti.
Ruth Dureghello, presidente della Comunità
ebraica di Roma, sostiene l’unicità della Shoah, e afferma: “I barconi dei
migranti con la Shoah non c’entrano nulla, né la propaganda antiebraica degli
anni trenta può essere comparata allo scontro politico odierno. Chi si presta
alle facili, e a volte fantasiose, comparazioni, aiuta, forse
inconsapevolmente, a sbiadire ciò che dovrebbe essere impresso nella nostra
mente” (La Stampa, 26/1/2021).
Il dramma dei profughi che muoiono in
mare, o patiscono dietro il filo spinato dei campi in Croazia, Turchia, Grecia,
non ha dietro un disegno di cancellazione di un popolo ritenuto “nemico”. È un
dramma umanitario che ha in comune con lo sterminio degli ebrei solo il fatto
di avvenire nella quasi totale indifferenza del mondo. Ma non è la stessa cosa
del massacro degli Armeni, degli Ucraini, dei Ceceni e, oggi, dei Rohingya,
degli Yazidi, degli Uiguri… Questi sono genocidi che non relativizzano o
sminuiscono affatto l’enormità del genocidio ebraico, ma anzi ci obbligano a
riflettere come quel “mai più”, che fu spesso ribadito dopo la fine della
Seconda guerra mondiale, sia stato ampiamente disatteso. E l’antisemitismo
rizzampilla fuori a ogni piè sospinto.
Non dimenticare è certamente il primo
imperativo: i sopravvissuti della Shoah hanno sentito come un, seppur doloroso,
dovere quello di raccontare e andare nelle scuole a testimoniare ai ragazzi.
Occorre inoltre rafforzare la democrazia e la solidarietà e, come diceva Primo
Levi, che tutti impariamo a cogliere i segnali di odio e violenza che si
ripresentano e combatterli, prima che sia troppo tardi. Quello che è accaduto è
riaccaduto. Potrebbe riaccadere, in alcune parti del mondo sta già riaccadendo
(Sofri ha ricordato che, pochi giorni fa, “il Foglio” intitolava efficacemente
un editoriale redazionale su “Le Uigure, come nei campi nazisti”).
In occasione del Giorno della memoria, la
commissione Esteri della Camera dei deputati ha sentito Gabriele Nissim (presidente
della Fondazione Gariwo, la Foresta dei Giusti), che ha chiesto all’Italia di
tenere fede all’impegno preso, quando ha firmato il 2 agosto del 1953 la
“Convenzione sulla prevenzione dei genocidi” delle Nazioni Unite (quella
promossa da Raphael Lemkin), facendo tre proposte, che sono state recepite da
tutta la commissione: nominare un advisor italiano dei genocidi; impegnare la
commissione Esteri a redigere ogni anno un rapporto dove si presentano
all’opinione pubblica i pericoli di nuovi genocidi e creare una agenzia
autonoma e indipendente sui diritti umani.
https://www.ilpost.it/francescocataluccio/2021/02/08/unicita-e-comparabilita/
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