(Vaprio d'Adda, 14 novembre
1914 – Orvieto, 3 luglio 2005)
Artista eclettico, Alberto Lattuada è
stato regista, sceneggiatore, attore, produttore cinematografico, grande
appassionato di pittura e di fotografia, abile nel trasporre su piccolo e
grande schermo celebri romanzi e scopritore di talenti femminili.
Alberto Lattuada, il regista eclettico e
intellettuale
Nato a Vaprio d’Adda il 14 novembre del 1914, Alberto Lattuada, figlio del
compositore Felice, durante il liceo, nel 1932, fonda insieme a Alberto
Mondadori il periodico “Camminare”; mentre lui si occupa d’arte, Monicelli collabora
in veste di critico. Durante gli studi di architettura continua a scrivere di
cinema e pittura, di architettura e arredamento, pubblica racconti e nutre la
sua passione per la fotografia, i cui risultati saranno raccolti nel 1941 ne
“L’occhio quadrato”.
Per un Mario Monicelli diciottenne fa
lo scenografo del cortometraggio “Cuore rivelatore” (1933), poi con
Gianni Comencini e Mario Ferrari muove i primi passi per la realizzazione della
futura Cineteca Italiana di Milano, salvando pellicole che altrimenti sarebbero
andate perse.
Nel 1941 è assistente alla regia di Soldati per la realizzazione di
“Piccolo Mondo antico” e di Poggioli per “Sissignora”, per poi esordire dietro
la macchina da presa nel 1942 con la trasposizione del romanzo “Giacomo
l’idealista” di Emilio De Marchi, in cui debutta Marina Berti. Segue “La
freccia nel fianco” (1943), altro adattamento, questa volta di un opera di
Luciano Zuccoli, lavoro abbandonato in seguito dal regista e completato da
Mario Costa.
Alberto Lattuada, il 'bandito' del
neorealismo
Nel 1946 Lattuada racconta il dopoguerra con “Il bandito”,
ambientata in una Torino sfigurata dai bombardamenti, in cui il protagonista,
reduce di guerra, si trasforma in un capo malavitoso. Con questa pellicola –
nella quale esordisce la moglie Carla Del Poggio, sposata nel 1945, da cui avrà
due figli – Lattuada sembra voler strizzare
l’occhio al genere poliziesco americano, seppur ancorato a uno stile
sostanzialmente documentaristico, segno distintivo del neorealismo.
Dopo “Il delitto di Giovanni Episcopo” (1947), perfetta regia tratta
da un opera di D’Annunzio, il cui protagonista da modesto impiegato si
trasforma in uomo dissoluto, infedele e omicida; Lattuada, avvalendosi della
sceneggiatura di Tullio Pinelli e Federico Fellini, realizza “Senza
pietà” (1948), storia di una donna costretta a prostituirsi, ambientata
nella pineta di Tombolo a Livorno, mostrando così, accanto alla narrazione
sempre vicina al poliziesco, la triste violenza e il degrado del dopoguerra.
Nel 1949 adatta per il grande schermo il romanzo di Riccardo Bacchelli, “Il
mulino del Po”, film sulle ingiustizie sociali della fine dell’Ottocento.
Alberto Lattuada: l'estraneo del sistema
Con Fellini, la Masina e la moglie fonda una cooperativa per liberarsi
delle pressioni inflitte dalle case di produzione, che gli impediscono di
trattare liberamente temi forti come il sistema carcerario, la corruzione e
l’emigrazione; per poi dirigere insieme a Fellini il celebre “Luci del
varietà” (1950), in cui viene messo a nudo il mondo dell’avanspettacolo.
Autoprodotto e interpretato da attori che accettano di lavorare ai minimi
sindacali, il film si rivela un insuccesso commerciale.
Ben diversi i risultati del successivo “Anna” (1950) con Silvana Mangano, Raf Vallone e Vittorio Gassman, suo più grande
successo di pubblico, prima pellicola a incassare oltre un miliardo di lire
nelle prime visioni e a essere presentata doppiata in inglese negli Stati
Uniti.
Impiegati mortificati, prostitute, banditi e malviventi: Lattuada continua a
prediligere personaggi – soprattutto personaggi femminili dalla sensualità
prorompente – la cui personalità e le cui azioni sono in opposizione a una
società a volte indifferente, altre ipocrita e bigotta in film come: “Il
cappotto” (1952) dal famoso racconto di Gogol; “La lupa” (1953),
tratto dall’omonima novella di Verga; o “La spiaggia” (1954), critica di una
certa borghesia ipocrita, che prende spunto da un fatto realmente accaduto con
protagonista una prostituta.
Diversi i toni di “Guendalina” (1957) e “I dolci inganni”
(1960) in cui il regista si confronta con l’adolescenza femminile e la scoperta
dell’amore.
Alberto Lattuada e l'amore per i classici
Dopo “Il cappotto”, Lattuada torna a mostrare il suo amore per i classici
russi con “La tempesta” (1958), ispirato all’opera di Puškin; e “La
steppa” (1963), che prende le mosse da un lungo racconto di Čechov. La
letteratura, più o meno nota, fornirà ottimi spunti per i successivi: “Lettere
di una novizia” (1960) da un romanzo di Guido Piovene del 1941; “La
Mandragola” (1965), dall’omonima opera di Niccolò Macchiavelli; “Don Giovanni
in Sicilia” (1967) dall’omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, sempre del 1941;
e “Venga a prendere il caffè da noi” (1970), dal romanzo “La
spartizione” di Pietro Chiara.
Da ricordare degli anni Sessanta “Mafioso” (1962), ritratto lucido
della malavita siciliana con uno strepitoso Alberto Sordi baffuto, nei
panni di un emigrante che si appresta a tornare a casa per le vacanze estive.
Successivamente Lattuada dirige un convincente Giannini nei panni di un
lavavetri in “Sono stato io!”; Gigi Proietti, avvocato rampante ma
squattrinato con idee imprenditoriali nel Salento, in “Le farò da padre”
(1974); Max von Sydow nella produzione
italo tedesca “Cuore di cane” (1976) e Marcello Mastroianni alle prese con
l’incesto in “Così come sei” (1978).
L’ultimo lungometraggio per il grande schermo è il poco riuscito “Una
spina nel cuore” (1986), con Anthony Delon nel ruolo di un giocatore di
poker innamorato di una giovane ragazza di paese.
Malato da tempo di Alzheimer, Alberto Lattuada muore nella sua casa di
Orvieto il 3 luglio del 2005.
Roberta D’Amico
https://www.ecodelcinema.com/alberto-lattuada-biografia-filmografia.htm
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