76 anni fa, in questi giorni, le donne
italiane conquistavano il diritto al voto
30 gennaio 1945: allora fu mosso
il primo passo verso il suffragio femminile. Quel giorno di 76 anni fa, il
Consiglio dei ministri deliberò la “concessione” del
diritto di elettorato attivo e passivo, che avrebbe poi portato al Decreto
legislativo luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio dello stesso anno. “Estensione alle donne del diritto di voto”, si
intitolava, con buona esclusione, però, delle minori di 21 anni e delle
prostitute.
In una Italia ancora monarchica
e sugli sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale, quella lungimirante riunione
del Consiglio dei ministri che conferiva il diritto di voto politico e
amministrativo alle donne fu dovuta alla pressione di Togliatti (Partito
Comunista) e del democristiano De Gasperi. Una svolta che, in ogni caso, era
dettata da un momento storico in cui una Nazione come la nostra non poteva più
sottrarsi ai richiami di una certa modernità.
L’estensione porta la firma di
Umberto di Savoia (capo del Governo era allora Ivanoe Bonomi) e fu solo un anno più tardi che le donne ebbero la possibilità di
essere anche elette, oltre che eleggere.
Come si è arrivati al suffragio universale
A onor del vero, non è stato
soltanto nel 1945 che si è parlato di diritto al voto per le donne. Già secondo
il Programma di San Sepolcro dei Fasci di combattimento del 1919 il diritto di
voto doveva essere esteso alle donne, tanto che Mussolini sembrava intenzionato
a concedere questo diritto “cominciando dal campo amministrativo” (una tattica
per prendere più consensi), ma non se ne fece poi più nulla, sia a causa della
riforma podestarile del 1926, sia per la riforma elettorale del 1928.
Anni dopo, nel clima della
Seconda Guerra Mondiale (novembre 1943), il Partito comunista fondò a Milano i
Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Volontari della Libertà:
un’organizzazione costituita da donne unite per manifestare contro la guerra,
assistere famiglie in difficoltà, supportare i partigiani. E mesi dopo, proprio
i partiti capeggiati da De Gasperi e Togliatti si dissero favorevoli
alll’estensione del voto anche alle donne: fu così che prese forma il decreto De Gasperi-Togliatti, meglio conosciuto
come decreto Bonomi, dal nome del Presidente del Consiglio
dei ministri del Regno d’Italia.
Nel mese di settembre del 1944,
sempre grazie al Partito comunista, a Roma fu fondata l’Unione Donne Italiane, nella quale vennero inseriti
i Gruppi di Difesa della Donna e dalla quale poi
prese corpo una nuova organizzazione, il Centro Italiano Femminile, di
ispirazione più destrorsa e cattolica.
Nell’ottobre 1944 la Commissione
per il voto alle donne dell’UDI e altre associazioni presentarono al governo
Bonomi un documento nel quale parlavano della necessità di concedere il suffragio universale e verso la fine
del mese sorse il Comitato Pro Voto, volto a far
conquistare il diritto di voto alle donne.
Nel gennaio del 1945, Togliatti
inviò una lettera a De Gasperi nella quale affermava come inevitabile la questione del voto alle donne nell’imminente
Consiglio dei ministri e fu così che il 30 gennaio 1945,
nella riunione del consiglio, come ultimo argomento, si discutesse proprio del
voto alle donne. La maggioranza dei partiti (si esclusero liberali, azionisti e
repubblicani) si dimostrò favorevole all’estensione. Il 1 febbraio 1945 venne emanato il decreto legislativo
luogotenenziale n. 23 che conferiva il diritto di voto alle italiane che
avessero almeno 21 anni, secondo il quale le uniche donne a essere
escluse erano le prostitute schedate che lavoravano al di fuori delle case dove
era loro concesso di esercitare la professione (le cosiddette “vaganti”, citate
all’art. 3).
Anche dal clero ci fu
un’apertura verso il suffragio: il 21 ottobre del ‘45 Papa Pio XII annunciò:
“Ogni donna, dunque, senza eccezione, ha, intendete bene, il dovere, lo
stretto dovere di coscienza, di non rimanere assente, di entrare in azione […]
per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le
dottrine che ne scalzano le fondamenta, per preparare, organizzare e compiere
la sua restaurazione”.
Il decreto Bonomi tuttavia
ancora non si riferiva alla possibilità di un elettorato passivo per le donne,
cioè della possibilità di essere votate. Trascorse, infatti, almeno un anno
prima che le donne italiane – di almeno 25 anni – potessero godere
dell’eleggibilità (Decreto n. 74 del marzo 1946).
Le prime elezioni amministrative alle quali le donne furono chiamate
a votare si svolsero a partire dal 10 marzo 1946 in 5 turni, mentre le prime
elezioni politiche (svolte assieme al Referendum istituzionale
monarchia-repubblica) si tennero il 2 giugno 1946.
Alle elezioni del 2 giugno 1946
per l’elezione dei deputati dell’Assemblea Costituente, le donne elette
risulteranno 21. Di queste, cinque (Maria Federici, Angela Gotelli, Nilde
Jotti, Teresa Noce, Lina Merlin), faranno parte della Commissione per la
Costituzione incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione
repubblicana.
La curiosità
Il 2 giugno del 1946, il
Corriere della Sera pubblicava un articolo con il quale invitava le donne a
presentarsi al seggio elettorale senza rossetto sulle
labbra, pena qualche segno di riconoscimento sulla scheda.
C’era, infatti, il rischio che le donne, nell’umettare il
lembo da incollare, avrebbero, involontariamente, lasciato una traccia di
rossetto:
“Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di
riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare
potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso
rendere nullo il loro voto. Dunque, il rossetto lo si porti con sé, per
ravvivare le labbra fuori dal seggio”.( Germana Carillo)
https://www.greenme.it/vivere/costume-e-societa/voto-donne-1945-italia/
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