Il pilota dei Marines all'ultimo volo in
Italia, volo troppo basso e veloce che provocò 20 morti. Il navigatore che
girava il video ricordo tra le Alpi e sorrideva: oggi insegna ai cadetti della
Us Navy come superare la sofferenza psichica
Più basso, più veloce. Sentendo la virata che ti schiaccia, mentre uno sperone
di roccia si trasforma in un canale di neve che inghiotte l'aereo lanciato
sempre più in basso, sempre più veloce. A mille chilometri all'ora le manovre
plasmano il corpo, con la tuta antigravità che si stringe e poi si allarga,
trasmettendo un senso di euforia. I piloti sono addestrati a gestirla, a
mantenere mente fredda e riflessi pronti durante quella danza immobile per gli
sbalzi dell'accelerazione che moltiplica la pressione e ti pulsa dentro la
testa, mentre gli alberi sono un tappeto verde indistinto che si srotola sotto
la fusoliera. Ma quel volo è un'altra storia. Un'occasione unica: l'ultima
missione tra le Alpi, senza la preoccupazione di dover sfidare la contraerea
serba nei cieli della Bosnia, senza alcun pensiero; un giro di puro piacere
sfrecciando in mezzo ai boschi e alle vette, prima di fare i bagagli e tornare
negli Stati Uniti.
LO SPECIALE MULTIMEDIALE: LA RICOSTRUZIONE DELLA
STRAGE DELLA FUNIVIA
A bordo del jet sono in quattro, veterani
ed esperti. Scherzano, ridono, filmano le montagne più belle del mondo per
portarsi a casa un souvenir da mostrare alle famiglie e agli amici: ogni tanto
urlano "Ricolaaaa", come nello spot tv delle caramelle svizzere. E
vanno sempre più in basso e sempre più veloce. All'improvviso si materializza
un punto giallo: è la cabina di una funivia. "Cazzo!". Questione di
un attimo, c'è un botto e tutti gli strumenti cominciano a gridare il suono
ossessivo dell'emergenza. E in quell'attimo si decide il destino di venti
persone.
I voli militari non sono passeggiate. Le macchine costano oltre ottanta milioni
di euro ma soprattutto i piloti sanno che la velocità non perdona: se ti
distrai anche solo per un istante puoi morire e uccidere. Ogni decollo, persino
il più banale, viene pianificato con scrupolo maniacale per ore. C'è una
burocrazia fredda e minuziosa, scandita da moduli, mappe, posizioni, previsioni
meteo e limiti da rispettare. Vale per tutti, anche per gli equipaggi che in
quel febbraio 1998 si preparano alla guerra. Vale pure per gli aviatori
americani rischierati ad Aviano, a pochi chilometri da Pordenone e dalla
frontiera della ex Jugoslavia, per obbligare i serbi a rispettare gli accordi
della fragile pace bosniaca. Si dedicano a ricognizioni difficili sopra
Sarajevo, perché qualunque azione di routine può diventare un incubo. Era
successo due anni prima al capitano Scott 'O Grady, abbattuto e inseguito per
sei giorni dai miliziani prima di venire soccorso. E lo stormo VAMQ-2
dell'Aviazione dei Marines ha il compito più pericoloso di tutti: fare da esca
per stanare radar e batterie terra-aria, accecandole con gli apparati
elettronici e deviando i missili. Il loro velivolo è il Grumman EA-6B Prowler
ossia Predatore: un vecchio bestione, entrato in servizio da oltre trent'anni,
con una meccanica datata ma gli strumenti più moderni per i duelli elettronici
e la fama di incassatore che ti riporta sempre indietro, persino con le ali
crivellate.
Oltre al pilota, a bordo c'erano sempre altre tre persone che si dedicavano a
far funzionare questi apparati hi-tech. L'aereo però mostrava il segno dei
tempi, imponeva una manutenzione costante e una concentrazione eccezionale ai
comandi: il numero di perdite per malfunzionamento o errori continuava a
crescere. Anche per questo il colonnello Muegge imponeva al suo stormo di
rispettare tutte le disposizioni: "Si vola "by the book",
seguendo il manuale; tolleranza zero per chi trasgredisce " . Muegge
diceva di non sopportare gli sbruffoni da Top Gun. Un mese prima il capitano
Richard Ashby durante un decollo in formazione aveva bruciato i colleghi sulla
pista, superandoli a tutto motore. E il colonnello gli aveva fatto un
cazziatone, mettendo a verbale l'ammonizione. Ashby però era ritenuto uno tra i
migliori ufficiali e tra poche settimane sarebbe comunque stato promosso,
passando sui caccia intercettori.
La missione che il 2 febbraio 1998 veniva pianificata in un ufficio di Aviano
sarebbe stato il suo ultimo volo sul Predatore: in quadruplice copia erano
state dettagliate rotta, altezza, velocità, consumo di carburante, aeroporti
dove dirigere in caso di problemi. Il programma prevede una sortita di
addestramento a bassa quota - nome in codice Easy- 01 - della durata di 46
minuti. Il tragitto sembra il depliant di un'escursione turistica sul meglio
delle Alpi: Dolomiti, Brunico, Ponte di Legno, Lago di Garda, Marmolada.
Accanto al trentenne Ashby ci sarebbe stato il navigatore Joseph Schweitzer,
suo coetaneo. Seduti dietro, chiusi davanti agli schermi radar con solo due
finestrini di lato, il tenente William Raney, 26 anni, e un ospite, Chandler
Seagraves, ventottenne capitano del reparto che tra pochi giorni li avrebbe
rimpiazzati nella sorveglianza sulla Bosnia.
Le proteste delle autorità italiane
Nessuno dice all'equipaggio che le
autorità italiane avevano chiesto di evitare le missioni raso terra. C'era
stata una circolare dell'Aeronautica Militare, emanata il 21 aprile 1997 e
protocollata come Sma/ 175. L'aria era affollata di caccia d'ogni paese,
mobilitati per il conflitto balcanico: centinaia di jet che sfrecciavano di
giorno e di notte spaventando la popolazione con l'urlo dei reattori. C'erano
già state 73 proteste, con 13 denunce formali: "Telefonavamo all'aeroporto
di Verona. Ci chiedevano: " Di che colore erano gli aerei? Che codici
avevano?" Sembrava ci prendessero in giro " . In quel periodo poi la
neve prometteva valanghe e il rombo dei motori avrebbe potuto provocare
l'inferno nel momento di punta della stagione sciistica, tanto che la centrale
dell'Aeronautica di Monte Rocca dirama il divieto di abbassarsi sotto i 600
metri. Per impedire quei sorvoli era stata promulgata persino un'inedita quanto
effimera legge della Provincia di Trento, fortemente voluta dall'assessore al
Turismo Francesco Moser: sì, proprio lui, l'ex campione di ciclismo che aveva
battuto ogni record e conosceva bene fascino e rischi della velocità.
La circolare Sma/175 era stata trasmessa
anche al quartiere generale della Nato e pure al colonnello italiano che
controlla il traffico da Aviano. La base è americana, ma il cielo è italiano:
tocca a noi autorizzare l'uso dello spazio aereo e stabilire le regole. In
realtà gli stormi statunitensi hanno continuato a seguire le loro procedure,
senza mai venire fermati. D'altronde il programma del volo Easy- 01 viene
approvato alle 21 e 57 del 2 febbraio dal comando italiano di Martina Franca,
il bunker sotterraneo alle porte di Taranto che coordina tutte le operazioni
sulla Penisola: c'è scritto che la quota sarebbe stata metà di quella indicata
nella circolare, ma nessuno obietta.
La mattina del 3 febbraio 1998 lo stesso
aereo va sulla Bosnia con un altro equipaggio. Quando atterra alle 13.20 viene
segnalato un guasto al misuratore di gravità: i tecnici lo sostituiscono e
verificano che ogni strumento del velivolo sia perfettamente funzionante. Il
capitano Ashby e i suoi commilitoni in quel momento sono riuniti per il
briefing: ripassano le fasi del volo, annotano i parametri previsti sulle
carte, discutono i consumi di carburante, verificano le possibili varianti.
Intorno alle due salgono a bordo del Predatore e alle 14 e 12 la torre
autorizza l'accensione dei motori. Alle 14.30 precise c'è il via libera per il
decollo. Ma il jet resta fermo. Arriva di corsa un'auto, un aviere scende e
lancia un borsello a un altro militare che lo passa al pilota: dentro ci sono
"un paio di videocassette". Solo a quel punto, il tettuccio viene chiuso
e si parte, con sei minuti di ritardo: mancano pochi secondi alle 14.36.
Scompaiono subito dai radar, perché le
montagne oscurano i sensori delle basi, anche le comunicazioni radio tacciono:
l'aereo è un fantasma. Punta invisibile su Ampezzo, poi devia su Brunico in
Alto Adige. Sotto ci sono le Tre Cime, la meraviglia delle Dolomiti. Nuova
virata, verso la Lombardia fino a Ponte di Legno, lungo la valle del Brennero
accarezzando l'Adamello. Toccano più volte i mille chilometri all'ora, sforando
i limiti di 100- 150 chilometri; soprattutto infrangono la quota minima e
scendono a soli cento metri dalle case. Quindi il lago di Garda. Da Riva si
dirigono sulla Marmolada: è trascorsa mezz'ora quando entrano nella Valle di
Fiemme a soli 260 metri dal suolo. "È passato talmente vicino al
terrazzino che non sono neppure riuscita vedere l'ala per intero", ha
testimoniato Barbara Demattio, una baby sitter di Castel di Fiemme: "I
vetri hanno tremato, il bimbo si è immediatamente svegliato e messo a gridare".
La Val di Fiemme è un paradiso di boschi
secolari, custoditi con orgoglio dalla sua comunità, incastonato nelle dolomiti
trentine. In quel febbraio generoso di neve e di sole gli alberghi sono pieni:
ai tradizionali turisti italiani ed europei si sono aggiunti i nuovi sciatori
dell'Est, che sull'Alpe Cermis si godevano oltre venti chilometri di piste. Si
raggiungono con una funivia divisa in due tratti. Il primo parte alle porte del
paese trentino di Cavalese, scavalca la valle del torrente Avisio e arriva a
mezzacosta al Doss de Laresi: millecinquecento metri sospesi nel vuoto, anche a
180 metri d'altezza. Due grandi cabine gialle da quaranta posti si alternano
nel percorso. L'impianto era stato ristrutturato dopo il dramma del 1976,
quando un guasto e una manovra errata avevano sganciato una delle
"gondole" - così le chiamano gli stranieri - uccidendo 42 persone:
solo i locali ormai ne avevano ricordo.
I diciannove in fila alla funivia
Nel primo pomeriggio del 3 febbraio l'Alpe si stava svuotando e in diciannove
si mettono in fila per tornare a Cavalese con la funivia. C'è Ewa Strzelczyk,
37 anni, che accompagna il figlio tredicenne Filip: il marito Peter si era
stirato un muscolo e da medico aveva preferito rimanere in camera evitando
altri sforzi. Vengono da Gliwice, un borgo polacco che per primo ha colto le
opportunità economiche della fine del Comunismo: Ewa è una musicista e dirige
il teatro locale. Anche Sonja Weinhofer, 22 anni, ama la musica ed è iscritta
al conservatorio: è con Anton Voglsang, 35, entrambi di Vienna. In disparte c'è
la ventenne olandese Danielle Groenleer. Si aggiunge il club di sci tedesco
"verde-bianco" di Mohsdorf, un quartiere di Burgstadt, un pezzo della
Sassonia che ha dimenticato in fretta i tempi bui della Ddr. Sono professori e
dipendenti comunali, con parenti al seguito: per la quarta volta soggiornano
all'Hotel Rio Bianco di Panchia, dove si fanno notare perché si presentano a
cena con l'abito buono, eleganti come a un gala. In genere sfruttano le piste
fino alla chiusura ma quel giorno smettono prima: hanno deciso di riposarsi e
ricominciare dopo il tramonto sull'unico impianto illuminato in notturna. Si
separano: sei vanno giù con gli sci, sette invece preferiscono la cabinovia.
Egon Uwe Renkewitz è con la figlia ventiquattrenne Marina Mandy e il suo
fidanzato Michael Potschke, un amore sbocciato durante le lezioni a Mannheim e
le nozze fissate per il prossimo Natale. Li seguono Annelie e Harald Urban.
L'insegnante Dieter Frank Blumenfeld va con loro, salutando la consorte. Jürgen
Wunderlich ha dimenticato la bottiglia di the e la moglie Rita lo insegue per
consegnargliela. Prima di allontanarsi, la donna scambia commenti sulla
sbadataggine dei mariti con due signore altoatesine di Bressanone, in coda per
tornare a valle: "Pure i nostri scordano sempre tutto...". Edeltraud
Zanon Werth, 56 anni, - che tutti chiamavano Traudi - e Maria Steiner Stampfl,
61, sono per la prima volta in vacanza da sole: per una vita avevano gestito i
loro negozi, uno di abbigliamento e l'altro di video, appena venduti. Adesso i
figli sono grandi e potevano godersi la pensione: "Finalmente possiamo
tirare un po' il fiato". Avevano lasciato i mariti a casa e si erano
prenotate una camera con vista sulle Dolomiti al resort di Veronza.
La comitiva più allegra è quella belga, cinque giovani partiti da un sobborgo
di Bruges, amici dai tempi dei boy scout, sempre pronti a mettersi a cantare.
Rientrano da un'escursione a quota 2500: hanno poco meno di trent'anni e la
vita gli sorride. Sebastiaan Van den Heede ha organizzato la vacanza per tutti
con la fidanzata Rose-Marie Eyskens, che da poco ha lasciato Anversa per vivere
insieme a lui: Sebastiaan è un ingegnere assunto dalla Volvo mentre Rose-Marie
si è laureata in legge e sta facendo la pratica da notaio. Stefaan Vermander,
anche lui ingegnere, lavora per Andersen Consulting mentre Hadewich Antonissen
è psicologo. Ma l'istrione è il ventottenne Stefan Bekaert detto Bekie: ha una
passione umanistica per la conoscenza, con una laurea in antropologia e una
seconda in arrivo in archeologia. Parla correttamente in latino e vuole fondere
le due discipline. Biondissimo, ha trascorso due anni nel cuore del Congo per
studiare i riti taumaturgici della tribù Sakata: tre mesi prima ha presentato
la tesi di dottorato, tanto brillante da ottenere un finanziamento dell'Unione
Europea per proseguire la ricerca. Suona ogni strumento: piano, clarinetto,
chitarra e sta imparando il sassofono, dono dalla fidanzata per il dottorato.
Con la sua band mescola jazz, blues e melodie africane. Disegna vignette in
continuazione, trasformando ogni situazione in caricatura, anche nei momenti di
quella settimana bianca. "Sembrava interessato a tutto. Vederlo alla
chitarra era uno spettacolo, chinato sulla sedia, i piedi sul tavolo, le mani che
correvano sulle corde. Suonava come studiava, come disegnava, come giocava a
calcio: in modo naturale e con enorme entusiasmo". Alle 15.11
l'impiantista Marcello Vanzo li fa salire nella "sua" cabina e chiude
le porte. È nato lì 56 anni prima e, tranne che per la leva negli alpini, ha
sempre vissuto a Cavalese. Quello non era il suo turno: dopo il pranzo al
ristorante Baita con i colleghi, si era offerto di sostituirne uno. Ed eccolo
ancora al lavoro, al suo posto di manovratore per guidarli lungo il chilometro
e mezzo che li separa dalla stazione.
Partono, lentamente, sospesi alla fune. Fuori però succede qualcosa. L'aria si
riempie di un rombo cupo, cattivo; il suono amplificato dalle pareti di roccia
si gonfia e ruggisce penetrando ovunque. È il jet americano. Tutti a Cavalese
alzano lo sguardo al cielo, ma nella cabina il rumore del motore smorza quel
boato e lo rende distante. Il Predatore non ha seguito il piano di volo: doveva
restare sopra la valle invece c'è entrato dentro. Doveva restare più in alto di
trecento metri, invece si abbassa sotto i 150 metri. E corre troppo, è a mille
chilometri all'ora. A quella velocità la funivia è invisibile. La cabina invece
è un punto giallo, che si materializza all'improvviso agli occhi del capitano
Ashby: "Cazzo!". Il suono dei reattori si deforma in un lamento
angosciante: l'aereo ha centrato il cavo; l'acciaio cerca di resistere, scava
un solco nell'ala che però ha una potenza inarrestabile. E poi la fune cede,
aprendosi a trecento metri dalla stazione.
Nella cabina avvertono quella forza apocalittica che scuote ogni cosa.
Capiscono. La caduta nel nulla per 111 metri dura secondi infiniti. Urlano
terrorizzati, si abbracciano. La gondola gialla si schianta sul crinale, poi si
capovolge e precipita a valle. Un urto mostruoso che stritola quei venti corpi,
annullandoli tra le lamiere. "Ho riconosciuto mia moglie da una catenina
che le avevo regalato per Natale", dichiara Josef Stampfl, il marito di
Maria venuta da Bressanone per la sua prima vacanza con un'amica.
La rotta su Aviano
L'aereo invece è soltanto ferito. Nel cockpit
suona la sirena d'allarme, l'indicatore mostra che stanno perdendo benzina, il
pilota si aggrappa alla cloche ma fatica a tenere il controllo.
"Lanciamoci", gridano da dietro, pronti a far scattare i seggiolini
eiettabili. "Non ancora", risponde il comandante. Prendono quota: più
in alto vai, più hai speranza di cavartela. Stabilizzano il velivolo e
verificano i danni: "Ce la possiamo fare, rotta su Aviano". Avvisano
la base di prepararsi a un atterraggio d'emergenza, senza dire niente della
cabinovia. Ancora sei minuti, temendo che il combustibile si incendi e i
serbatoi esplodano. Poi calano sulla pista, con una scia di liquido che cola
dall'ala, e si fermano. "Tutti fuori!". Il capitano Raney si catapulta
giù, così rapido da rompersi la caviglia. Anche Seagraves lo segue a
perdifiato. Ma nei sedili sul davanti nulla si muove. I due si allontano, i
mezzi dei pompieri stanno arrivando ma Ashby e Schweitzer restano dentro.
Aspettano ancora lunghi minuti prima di scendere. Quando i loro piedi toccano
terra, la missione Easy-01 è finita.
Il disastro è subito noto. Le responsabilità
anche: l'aereo ha seminato frammenti nella valle. Adesso tocca alla Giustizia.
Già, ma quale? Quella italiana? Quella americana? Entrambe? Il braccio di ferro
comincia in meno di un'ora. La procura di Trento vuole sequestrare l'aereo ma
il Predatore è un segreto militare: quelle strumentazioni per la guerra
elettronica sono l'arma più sofisticata dell'arsenale statunitense, impensabile
lasciarle in mano a stranieri e civili. Dal Pentagono non mostrano dubbi. Il
Trattato di Londra del 1951 che regola i rapporti dei Paesi Nato è in gran
parte segreto ma ha un caposaldo noto e consolidato: la competenza in questo
caso è americana. "Anche voi italiani quando le Frecce Tricolori si
schiantarono sulla folla dello show di Ramstein, una base statunitense in
territorio tedesco, avete preteso di condurre le indagini e i processi. Bene,
questo incidente spetta a una nostra commissione".
Le
responsabilità della strage
Venti morti però sono un dramma che può
sconvolgere ogni regola. Perché c'è tutta una nazione infuriata, che non vuole
accettare la follia di quella strage, di quelle vite massacrate per un wargame.
Dal Quirinale Oscar Luigi Scalfaro scandisce parole di fuoco: "Non si
gioca con la vita". Il premier Romano Prodi parla di "piena
responsabilità americana". E a colloquio con il presidente Bill Clinton si
mostra determinato: senza giustizia, cambierà il nostro atteggiamento riguardo
alle basi Usa. Lo ha poi spiegato sotto giuramento il colonnello Thomas
Blickensderfer, capo delle operazioni aeree dei Marines: "Ci venne
riferito che Clinton chiamò il presidente del Consiglio italiano. Clinton
sperava di sentirsi dire "sono cose che succedono", invece Prodi gli
fece capire che c'era il rischio che gli americani non avrebbero più potuto
operare sul territorio italiano".
La bravata del Predatore poteva azzerare la
strategia della Casa Bianca. Scomparsa l'Unione Sovietica, pacificato il Medio
Oriente, Clinton aveva fatto dei Balcani il fulcro della sua politica di
potenza: dopo avere imposto la pace in Bosnia, si preparava al confronto finale
con Belgrado, che sarebbe scattato con il conflitto del Kosovo un anno dopo. Il
conto alla rovescia era cominciato proprio quella settimana, con un monito del
segretario di Stato Madaleine Albright. Senza gli aeroporti della Penisola,
però, ogni azione nella ex Jugoslavia sarebbe diventata impossibile. C'è poi un
altro fattore, al momento ancora opaco, che forse ha spinto il presidente ad
evitare ulteriori grane sul fronte italiano: esattamente una settimana prima
della strage, aveva dovuto rispondere alle accuse sui rapporti con Monica
Lewinsky, pronunciando la frase "non ho avuto relazioni sessuali con
quella donna" che poi lo ha portato a un passo dall'impeachment.
Gli americani cambiano linea, chinando la testa
e assumendosi la "totale responsabilità". Vengono forniti dati alla
procura di Trento e promessa collaborazione, il Pentagono preannuncia raffiche
di incriminazioni. Alla luce dei risultati, però, più che una svolta pare una
mossa tattica. Perché il nodo della questione rimane intatto, seppur rinviato:
gli Usa e soltanto gli Usa giudicheranno i colpevoli. Le aperture diplomatiche
e i capi cosparsi di cenere placano in parte l'opinione pubblica italiana e
incentivano il disinteresse della nostra classe politica. C'è un "partito
atlantico" guidato dal ministro degli Esteri Lamberto Dini che invita
"al rispetto delle alleanze" e smorza i toni del confronto. Ancora
una volta, la crisi internazionale fa lentamente emergere un Paese diviso, con
governo, parlamento, generali, magistrati incapaci di coordinare gli sforzi.
Iniziative e dichiarazioni si accavallano e disturbano, con effetti nulli o addirittura
controproducenti. Come la richiesta formale di rinunciare alla giurisdizione
Usa, che di fatto ribadisce la competenza americana.
"Il problema, per dirlo chiaro e semplice,
è quello della sovranità italiana sul territorio", scrive Eugenio Scalfari.
L'ultimo tentativo di ottenere almeno un'istruttoria condivisa, considerando
come Nato e non solo come statunitense la missione del Predatore, tramonta
quando il comandante militare dell'Alleanza atlantica Wesley Clark, lo stesso
generale che poi guiderà la guerra del Kosovo, sancisce che quel volo era solo
americano. È il 13 marzo 1998. Da allora le inchieste italiane si spengono
lentamente, le nostre magistrature ordinaria e militare depongono gradualmente
le armi legali e si rassegnano al processo negli States. Tutti convinti che non
sarebbe stato comunque possibile lasciare impunito un crimine così grave. Ma il
compito di fare giustizia resta nelle mani dei Marines, con i loro detective e
con la loro corte marziale.
L’errore nella
quota di volo
Le colpe del pilota e del navigatore sembrano
dimostrate: non dovevano volare a quella quota. Se il loro aereo era invisibile
ai radar terrestri, non era sfuggito agli schermi dei grandi quadrireattori
Awacs che vigilano H-24 sulla frontiera balcanica: i loro strumenti registrano
i jet a bassa quota in un raggio di 400 chilometri, con ventitré specialisti di
diverse nazionalità della Nato testimoni delle violazioni di altezza, rotta e
velocità condotte nella missione del 3 febbraio. Sono gli elementi oggettivi che
confermano le dichiarazioni degli abitanti della valle e quelle estrapolate
dagli strumenti dell'aereo assassino: il quadro è completo.
Nei faldoni degli investigatori statunitensi
cominciano a materializzarsi pure altri sospetti. All'indomani della strage,
nella gigantesca casa madre dell'aviazione dei Marines di Cherry Point, nella
Carolina del Nord, il colonnello Stephen Watters ordina ai piloti del suo
stormo di far sparire tutti i video girati un anno prima durante la permanenza
ad Aviano. Si scopre che anche lui ne aveva personalmente registrato uno,
filmandosi mentre sfrecciava con il suo caccia tra le Alpi ben sotto la quota
minima.
La vicenda fa nascere un'ipotesi,
raccapricciante. Anche l'equipaggio del massacro stava girando un video? Gli
investigatori mettono in fila le anomalie. C'è il ritardo nel decollo da Aviano
per farsi consegnare "un paio di videocassette": a bordo del
Predatore però viene sequestrata una telecamera con dentro un solo nastro
vergine. E poi c'è il mistero dei minuti cui pilota e navigatore restano nella
fusoliera dopo l'atterraggio, mentre gli altri due correvano via temendo
l'esplosione del carburante. Perché? Sì, durante la missione sulle Alpi che ha
ucciso venti persone stavano girando un video. Ma tacciono, anche con i loro
comandanti. Tre degli uomini di Easy-01 sono vecchi camerati; il capitano
Seagraves no. Appartiene a un altro reparto, non aveva mai volato prima con
loro. È lui l'anello debole. Il navigatore Schweitzer lo avvicina:
"Dimentica la cassetta". Seagraves, per rimorso o per paura, accetta
però di rispondere alle domande degli inquirenti in cambio dell'immunità:
"I due davanti hanno girato un video. Non posso dire se lo facevano anche
al momento dell'impatto, da dietro non si vedeva. Hanno sostituito il nastro
prima di uscire dall'aereo". Dov'è finita la registrazione? "Ho
consigliato ad Ashby di liberarsene".
Non si sa quando gli inquirenti abbiano avuto la
certezza del video-souvenir, probabilmente entro un mese dalla strage:
l'esistenza viene formalizzata solo quattro mesi dopo con gli interrogatori del
18 giugno 1998, in cui si mette nero su bianco la sostituzione della cassetta.
Non si fa nessun cenno al contenuto delle immagini scomparse. Difficile che al
Pentagono non si rendano conto della pericolosità di quella rivelazione: può
essere devastante, confermando i peggiori pensieri sul comportamento delle
forze armate americane. "Ci avrebbero fatto passare come cow boy killer,
che hanno ucciso venti persone per filmare acrobazie mozzafiato tra le Dolomiti",
dirà un anno dopo il navigatore Schweitzer. Non solo. Il Trattato di Londra
prevede una sola eccezione alla competenza statunitense: quando l'atto
criminoso non rientra nell'attività di servizio del militare. Se si fosse
potuto collegare la disattenzione dell'equipaggio all'uso delle telecamera,
l'intero processo forse sarebbe rimasto in Italia. È una scoperta che può
ribaltare la situazione, vanificando la tregua raggiunta con Roma. Ma resta
nascosta nei fascicoli degli inquirenti, sostanzialmente occultata tra i
tecnicismi procedurali.
L'inchiesta
dei Marines
L'inchiesta principale dei Marines si chiude il
30 giugno 1998, chiedendo la Corte Marziale per il pilota Ashby e per il
navigatore Schweitzer, mentre gli altri due vengono prosciolti. Le accuse
possono valere due secoli di carcere: violazione dei propri doveri nella
condotta del volo, strage colposa e omicidio colposo, danneggiamento. La
ricostruzione è severa, senza se e senza ma. Quei venti morti sono colpa loro,
perché hanno manovrato "in modo aggressivo", superando i limiti di
quota e velocità più volte: lo scontro con il cavo quindi non era frutto di un
singolo errore, ma di tutta la gestione scellerata della missione. Il 10 luglio
c'è il rinvio a giudizio. Solo il 30 agosto però viene formulata
l'incriminazione per il depistaggio, ossia l'ostacolo alle indagini, per la
rimozione della cassetta, da giudicare in un dibattimento separato. Le vicende
si dividono e così si neutralizzano, perché il contenuto del video scompare
dalla scena del disastro.
Il primo processo si celebra dal 7 dicembre 1998
nella grande installazione di Camp Lejeune, sempre nella Carolina del Nord,
invasa per l'occasione da reporter e televisioni. Il pubblico ministero è
durissimo: "Il capitano Ashby ha violato la regola "scritta con il
sangue" di non scendere sotto i 300 metri. È incorso in pericoli
ingiustificabili quando ha manovrato quel velivolo a mille all'ora dentro la
valle di Cavalese. Dopo 20-23 secondi da quando è entrato nella valle, inizia a
manovrare il suo aereo. A quel punto, si è messo in una situazione dalla quale
non può uscire, perché sta procedendo alla massima velocità, alla minima
altitudine, e sta manovrando. A quel punto non c'è più niente che possa fare.
Si trova su un missile che sta slittando proprio in quella direzione, e invece
di rialzarsi, va ancora più in basso". L'inquisitore fa poi leva sulla
videocassetta rimossa per descrivere il cinismo dei due imputati: "Sanno
che hanno colpito una funivia. Sanno che hanno tagliato dei cavi. Hanno contattato
Aviano, dicendo che avevano sofferto un danno strutturale, che stavano tornando
con dei problemi. Dov'è la chiamata via radio in cui dicevano che avevano
appena visto una funivia, che avevano colpito dei cavi, che qualcuno doveva
chiamare i servizi di emergenza in quella vallata? Hanno scambiato i nastri
perché non vogliono che voi sappiate quello che è successo su
quell'aeroplano".
Per la difesa invece siamo davanti a "un
terribile incidente che è avvenuto durante l'addestramento e niente di
più". L'avvocato, un ex colonnello dei Marines pluridecorato, dissemina
dubbi. Parla del malfunzionamento dell'altimetro - paventato dal pilota ma
smentito dalle indagini - esibendo nuovi elementi. Descrive le carenze nelle
mappe Usa dove non è segnalata la funivia; la non chiara esposizione dei
vincoli sulle altezze nei briefing e infine si concentra sull'orografia
complessa della valle, tutti elementi già bocciati durante l'istruttoria. La
morte di venti persone viene ridimensionata: è una fatalità, frutto di
circostanze imprevedibili negli ultimi otto secondi di volo.
L'assoluzione
Nella tarda serata del 3 marzo 1999, dopo sette
ore e mezzo di camera di consiglio, arriva il verdetto di assoluzione.
Clamoroso e inappellabile. Non ci sono motivazioni: la strage diventa un
incidente, la morte di venti persone si trasforma in una pura casualità nella
routine aviatoria. Per i familiari è uno shock; i giornali italiani, tedeschi e
belgi titolano "Vergogna". Dentro l'aula della corte marziale
praticamente tutti erano militari: giudici, giurati, periti, avvocati,
procuratori, testimoni. E fuori di lì, la Storia era cambiata rispetto al
giorno maledetto del Cermis. Da quattro mesi la tensione con la Serbia era alle
stelle e l'armata americana si stava schierando per il colpo finale nei
Balcani. Davanti alla sede del processo manipoli di veterani del Vietnam
manifestavano: "Quei piloti sono innocenti, giù le mani dai nostri
marines". In tv alcuni senatori repubblicani contestavano la Casa Bianca:
"Quei ragazzi hanno fatto il loro dovere. Gli stessi che li mandano a
combattere ora vogliono farne un capro espiatorio". Un impetuoso vento di
guerra, che può essere entrato nell'aula, spingendo i giurati in divisa a non
infierire su piloti che avevano sì sbagliato ma sostenevano di averlo fatto
proprio per prepararsi a quel compito: la condanna poteva essere un pessimo
segnale per le migliaia di uomini che si preparavano a rischiare la vita,
volando bassi e veloci sulle batterie di Belgrado.
"Indigniamoci ma non stupiamoci per l'assoluzione
- commenta Giorgio Bocca sulla prima pagina di Repubblica - Questo è il prezzo
dell'impero, della dipendenza economica e militare da una potenza
mondiale". Al momento del verdetto, un anno dopo la strage, l'Italia non
era più percepita come un problema dal Pentagono. Anzi, le minacce di chiudere
le basi attribuite a Prodi erano state introdotte nel dibattimento proprio
dalla difesa per dimostrare "il clima di pressione politica" sugli
investigatori. Da quattro mesi Prodi era fuori gioco, sostituito a Palazzo
Chigi da Massimo D'Alema, che aveva manifestato piena adesione alle iniziative
belliche nella Nato. Il suo governo si reggeva sui voti del partito creato
esplicitamente da Francesco Cossiga per sostenere l'impegno atlantico nei
Balcani, partito a cui apparteneva il ministro della Difesa Carlo Scognamiglio.
Di fronte alla polemica per l'assoluzione, il vicepremier Sergio Mattarella
cerca di spiegare alle Camere che l'Italia non è succube dell'Alleanza, ma
parte attiva che spinge perché l'Europa abbia maggior peso: "Identificare
nella Nato un'espressione dell'egemonia americana risulta decisamente
anacronistico".
Il
post-comunista alla Casa Bianca
Per D'Alema il verdetto è una beffa doppiamente
amara, perché piomba mentre è negli Usa per incontrare Clinton, primo
post-comunista ricevuto alla Casa Bianca. I colloqui del 5 marzo 1999 dovevano
essere incentrati sull'imminente campagna in Kosovo, ma l'assoluzione sovverte
l'agenda. Al rientro in Italia il premier riferisce in Parlamento. "Ho
apprezzato la sincerità con cui il Presidente ha riconosciuto la responsabilità
del proprio Paese. Da parte mia, ho esposto le ragioni di una profonda
insoddisfazione. È chiaro, infatti, che l'assoluzione del pilota non può che
spostare il livello della responsabilità. Mi limito a ripetere che quella
sentenza è stata per molti ed anche per me, un fatto sconcertante. E non perché
molti fossero alla ricerca di un capro espiatorio. Lo sconcerto nasceva dal
fatto che dopo quel giudizio si è accresciuta la preoccupazione che la verità
sui fatti del Cermis possa allontanarsi, offuscarsi ulteriormente". E
conclude paventando la revisione dei patti con gli Usa: "Vorrei aggiungere
che è del tutto evidente che se le responsabilità della tragedia non venissero
accertate - e questo ho detto con assoluta franchezza al presidente Clinton -
tanto più si accentuerebbe la necessità di un adattamento e di un aggiornamento
degli accordi stessi perché risulterebbe evidente la loro inadeguatezza".
Parole poi in qualche modo stemperate dal sottosegretario di Palazzo Chigi
Marco Minniti: "La revisione del trattato di Londra "può" - e lo
dico tra virgolette - dare una risposta alla nostra sete di giustizia, ma deve
essere attentamente valutata al fine di non creare difficoltà ai militari italiani
impegnati in operazioni della Nato".
Due settimane dopo il verdetto, il 24 marzo
1999, cominciano i bombardamenti sul Kosovo e sulla Serbia. Era dal 1945 che
l'Europa non diventava terreno di una guerra totale, combattuta per 78 giorni
esclusivamente dal cielo. L'attenzione si sposta su quegli avvenimenti. Il 28
marzo, quando il capitano Schweitzer ammette le sue colpe per il video fatto
sparire e poi bruciato in un camino, nessuno segue l'udienza. La sua
spiegazione resta negli atti del processo: "Avrebbero frainteso il
contenuto. La televisione italiana lo avrebbe trasmesso accanto alle immagini
dei corpi sanguinanti vicino alla funivia...". Pure lui ha patteggiato
l'immunità in cambio delle accuse contro Ashby: se la cava con la radiazione
dai Marines.
Il secondo processo al pilota Ashby si celebra a
maggio 1999, mentre i raid sulla Serbia proseguono senza sosta e si prepara
l'invasione da terra. Il capitano si difende con candore: "Tutti giravano
video durante le missioni sulle Dolomiti, venivano mostrati nella sala comune,
non c'era nulla di male". Cosa confermata dalle deposizioni di altri
ufficiali: "Quei filmati con vette e boschi ricordavano la pubblicità
delle caramelle Ricola...". Nega però che le riprese abbiano condizionato
il volo e che stessero usando la telecamera durante l'impatto con la fune, cosa
che nessuno potrà mai provare.
La condanna
di Ashby
Il 10 maggio 1999 Ashby viene condannato a sei
mesi di prigione ed espulso dai Marines. Va subito in cella ma il 13 ottobre,
un mese prima della scadenza, ottiene la scarcerazione anticipata per buona
condotta. Per dieci anni ha presentato istanze, chiedendo invano di rivedere la
sentenza: l'ultima è stata respinta il 31 agosto 2009. Di lui non si hanno più
notizie: sembra che sia rimasto pilota, passando ai comandi di jet privati per
magnati americani. I due tecnici seduti dietro, Raney e Seagraves, hanno
proseguito la loro carriera. Brillante quella del secondo, che nel 2012 è
entrato nella pattuglia acrobatica dei Blue Angeles e fino alla scorsa estate
ha comandato la più importante base dei Marines.
Paradossale la sorte del navigatore Schweitzer,
reo confesso del video nascosto. Nel 2007 gli è stata riconosciuta la Sindrome
Ptsd, lo stress traumatico che tormenta i reduci, diffusa in massa tra i
soldati che tornavano dall'Iraq. Da allora insegna ai cadetti dell'Us Navy
proprio come superare questa sofferenza psichica. Nelle sue lezioni non gli
nasconde la vicenda del nastro sostituito, di cui nel 2014 ha parlato pure in
un documentario di National Geographic: "Avevo ripreso le Alpi e il lago
di Garda, filmando il comandante Ashby. Poi ho rivolto la camera verso di me e
ho sorriso. Se quelle immagini fossero finite sulla Cnn, avrebbero accostato
quel sorriso al sangue sulla neve, sarei entrato in uno spettacolo
internazionale e non avrei retto a un incubo simile. Per questo ho distrutto il
nastro". Elenca poi i suoi "demoni": "Continuavo a piangere
come un bambino, mi chiedevo: perché io sono vivo e loro no". Infine guida
gli allievi della Marina lungo un percorso di positività, denso di citazioni
letterarie, fino alla rimozione del trauma
L’assoluzione
Nella tarda serata del 3 marzo 1999, dopo sette
ore e mezzo di camera di consiglio, arriva il verdetto di assoluzione.
Clamoroso e inappellabile. Non ci sono motivazioni: la strage diventa un
incidente, la morte di venti persone si trasforma in una pura casualità nella
routine aviatoria. Per i familiari è uno shock; i giornali italiani, tedeschi e
belgi titolano "Vergogna". Dentro l'aula della corte marziale
praticamente tutti erano militari: giudici, giurati, periti, avvocati,
procuratori, testimoni. E fuori di lì, la Storia era cambiata rispetto al
giorno maledetto del Cermis. Da quattro mesi la tensione con la Serbia era alle
stelle e l'armata americana si stava schierando per il colpo finale nei
Balcani. Davanti alla sede del processo manipoli di veterani del Vietnam
manifestavano: "Quei piloti sono innocenti, giù le mani dai nostri
marines". In tv alcuni senatori repubblicani contestavano la Casa Bianca:
"Quei ragazzi hanno fatto il loro dovere. Gli stessi che li mandano a
combattere ora vogliono farne un capro espiatorio". Un impetuoso vento di
guerra, che può essere entrato nell'aula, spingendo i giurati in divisa a non
infierire su piloti che avevano sì sbagliato ma sostenevano di averlo fatto
proprio per prepararsi a quel compito: la condanna poteva essere un pessimo
segnale per le migliaia di uomini che si preparavano a rischiare la vita,
volando bassi e veloci sulle batterie di Belgrado.
"Indigniamoci ma non stupiamoci per
l'assoluzione - commenta Giorgio Bocca sulla prima pagina di Repubblica -
Questo è il prezzo dell'impero, della dipendenza economica e militare da una
potenza mondiale". Al momento del verdetto, un anno dopo la strage,
l'Italia non era più percepita come un problema dal Pentagono. Anzi, le minacce
di chiudere le basi attribuite a Prodi erano state introdotte nel dibattimento
proprio dalla difesa per dimostrare "il clima di pressione politica"
sugli investigatori. Da quattro mesi Prodi era fuori gioco, sostituito a
Palazzo Chigi da Massimo D'Alema, che aveva manifestato piena adesione alle
iniziative belliche nella Nato. Il suo governo si reggeva sui voti del partito
creato esplicitamente da Francesco Cossiga per sostenere l'impegno atlantico
nei Balcani, partito a cui apparteneva il ministro della Difesa Carlo
Scognamiglio. Di fronte alla polemica per l'assoluzione, il vicepremier Sergio
Mattarella cerca di spiegare alle Camere che l'Italia non è succube
dell'Alleanza, ma parte attiva che spinge perché l'Europa abbia maggior peso:
"Identificare nella Nato un'espressione dell'egemonia americana risulta
decisamente anacronistico".
Il
post-comunista alla Casa Bianca
Per D'Alema il verdetto è una beffa doppiamente
amara, perché piomba mentre è negli Usa per incontrare Clinton, primo
post-comunista ricevuto alla Casa Bianca. I colloqui del 5 marzo 1999 dovevano
essere incentrati sull'imminente campagna in Kosovo, ma l'assoluzione sovverte
l'agenda. Al rientro in Italia il premier riferisce in Parlamento. "Ho
apprezzato la sincerità con cui il Presidente ha riconosciuto la responsabilità
del proprio Paese. Da parte mia, ho esposto le ragioni di una profonda
insoddisfazione. È chiaro, infatti, che l'assoluzione del pilota non può che
spostare il livello della responsabilità. Mi limito a ripetere che quella
sentenza è stata per molti ed anche per me, un fatto sconcertante. E non perché
molti fossero alla ricerca di un capro espiatorio. Lo sconcerto nasceva dal
fatto che dopo quel giudizio si è accresciuta la preoccupazione che la verità
sui fatti del Cermis possa allontanarsi, offuscarsi ulteriormente". E
conclude paventando la revisione dei patti con gli Usa: "Vorrei aggiungere
che è del tutto evidente che se le responsabilità della tragedia non venissero
accertate - e questo ho detto con assoluta franchezza al presidente Clinton -
tanto più si accentuerebbe la necessità di un adattamento e di un aggiornamento
degli accordi stessi perché risulterebbe evidente la loro inadeguatezza".
Parole poi in qualche modo stemperate dal sottosegretario di Palazzo Chigi
Marco Minniti: "La revisione del trattato di Londra "può" - e lo
dico tra virgolette - dare una risposta alla nostra sete di giustizia, ma deve
essere attentamente valutata al fine di non creare difficoltà ai militari
italiani impegnati in operazioni della Nato".
Due settimane dopo il verdetto, il 24 marzo
1999, cominciano i bombardamenti sul Kosovo e sulla Serbia. Era dal 1945 che
l'Europa non diventava terreno di una guerra totale, combattuta per 78 giorni
esclusivamente dal cielo. L'attenzione si sposta su quegli avvenimenti. Il 28
marzo, quando il capitano Schweitzer ammette le sue colpe per il video fatto
sparire e poi bruciato in un camino, nessuno segue l'udienza. La sua spiegazione
resta negli atti del processo: "Avrebbero frainteso il contenuto. La
televisione italiana lo avrebbe trasmesso accanto alle immagini dei corpi
sanguinanti vicino alla funivia...". Pure lui ha patteggiato l'immunità in
cambio delle accuse contro Ashby: se la cava con la radiazione dai Marines.
Il secondo processo al pilota Ashby si celebra a
maggio 1999, mentre i raid sulla Serbia proseguono senza sosta e si prepara
l'invasione da terra. Il capitano si difende con candore: "Tutti giravano
video durante le missioni sulle Dolomiti, venivano mostrati nella sala comune,
non c'era nulla di male". Cosa confermata dalle deposizioni di altri
ufficiali: "Quei filmati con vette e boschi ricordavano la pubblicità
delle caramelle Ricola...". Nega però che le riprese abbiano condizionato
il volo e che stessero usando la telecamera durante l'impatto con la fune, cosa
che nessuno potrà mai provare.
La condanna
di Ashby
Il 10 maggio 1999 Ashby viene condannato a sei
mesi di prigione ed espulso dai Marines. Va subito in cella ma il 13 ottobre,
un mese prima della scadenza, ottiene la scarcerazione anticipata per buona
condotta. Per dieci anni ha presentato istanze, chiedendo invano di rivedere la
sentenza: l'ultima è stata respinta il 31 agosto 2009. Di lui non si hanno più
notizie: sembra che sia rimasto pilota, passando ai comandi di jet privati per
magnati americani. I due tecnici seduti dietro, Raney e Seagraves, hanno
proseguito la loro carriera. Brillante quella del secondo, che nel 2012 è
entrato nella pattuglia acrobatica dei Blue Angeles e fino alla scorsa estate
ha comandato la più importante base dei Marines.
Paradossale la sorte del navigatore Schweitzer,
reo confesso del video nascosto. Nel 2007 gli è stata riconosciuta la Sindrome
Ptsd, lo stress traumatico che tormenta i reduci, diffusa in massa tra i
soldati che tornavano dall'Iraq. Da allora insegna ai cadetti dell'Us Navy
proprio come superare questa sofferenza psichica. Nelle sue lezioni non gli
nasconde la vicenda del nastro sostituito, di cui nel 2014 ha parlato pure in
un documentario di National Geographic: "Avevo ripreso le Alpi e il lago
di Garda, filmando il comandante Ashby. Poi ho rivolto la camera verso di me e
ho sorriso. Se quelle immagini fossero finite sulla Cnn, avrebbero accostato
quel sorriso al sangue sulla neve, sarei entrato in uno spettacolo
internazionale e non avrei retto a un incubo simile. Per questo ho distrutto il
nastro". Elenca poi i suoi "demoni": "Continuavo a piangere
come un bambino, mi chiedevo: perché io sono vivo e loro no". Infine guida
gli allievi della Marina lungo un percorso di positività, denso di citazioni
letterarie, fino alla rimozione del trauma.
Il Cermis diventa business
Un pentimento sincero? Sembra più che faccia il
sopravvissuto di mestiere. Ha trasformato anche il Cermis in business, tenendo
corsi motivazionali a pagamento con la Mastery Technologies. Viene presentato
così: "Dopo avere servito dieci anni come ufficiale, ha speso gli ultimi
sedici anni in un'odissea, trovando una seconda opportunità di vita come
superstite di un incidente aereo. Offre eventi e seminari aziendali per squadre
sportive e società, preparando quei leader che vogliono un miglior approccio ai
risultati grazie alla sua esperienza di guerriero e di sopravvissuto". Tra
i clienti della Mastery Technologies: la squadra di football americano dei
Miami Dolphins, Walt Disney, Pfizer farmaceutica, tutti bisognosi di dare una
sferzata al morale ai loro giocatori e ai loro manager.
I soldi per le vere vittime sono arrivati nella
primavera del 2000, con un decreto firmato da D'Alema: per ogni persona tre
miliardi e 800 milioni di lire, pari a circa due milioni di dollari. Paga
l'Italia, poi gli Usa ne rimborseranno i tre quarti, come prevedono gli accordi
Nato. Molti dei parenti hanno seguito i processi negli Usa. Sono stati ospitati
in un residence nella base dei Marines, accompagnati da un interprete militare
per tradurre il dibattimento nella loro lingua. Hanno accolto in lacrime
l'assoluzione. Klaus Stampfl, il figlio di Maria da Bressanone, lo definisce un
verdetto vergognoso: "Non è stato un processo serio, di sicuro non quanto
avrebbe potuto esserlo in Italia". Forse sulla scia delle proteste, tre di
loro sono stati ammessi a testimoniare nel giudizio sulla cassetta. Emma
Renkewitz ha detto alla corte: "Non ho più nessuno, sono rimasta
sola". In quella cabina ha perso il marito, la figlia, il futuro genero.
"Perché sono morti? Perché hanno nascosto le prove? Soffro perché queste
domande mi tormentano e non so come potranno mai rispondermi". Giorgio
Vaia, il genero del manovratore dichiara: "Per quanto sia profondo il male,
per quanto tu soffra, tenti di accettare quello che è accaduto. Ma lo fai poco
alla volta e hai bisogno di sapere cosa è successo veramente". Rita
Wunderlich, che inseguì il marito per consegnarli il the sulla porta della
cabina, taglia corto: "Non potrò mai avere pace".
Il silenzio
dei parenti
Da allora, forse sentendosi traditi da governi
ed autorità, tutti hanno scelto il silenzio, evitando di riaprire una ferita
così devastante. Respingono i giornalisti, non vogliono prestarsi alle
strumentalizzazioni politiche: sono di nazionalità diverse, ma li unisce una
dignità comune. "Non ho mai parlato. Continuerò a non farlo. La storia la
sanno tutti, il dolore è solo mio", ripete la vedova del macchinista
Marcello Vanzo. Il padre di Stefan Bekaert, il giovane studioso venuto dal
Belgio, ha devoluto il risarcimento a un fondo per finanziare le ricerche degli
studenti di Lovanio e di Kinshasa. I genitori di Rose-Marie Eyskens hanno
raggiunto Cavalese da Anversa per ogni commemorazione, portando dietro la foto
della figlia ventiquattrenne con un cappellino vezzoso e un calice in mano, il
ritratto della gioia che nessuno potrà restituirgli. Forse ci saranno pure
domani, quando alle dieci si terrà una piccola cerimonia nella chiesa
dell'Addolorata e al cippo che ricorda "le disgrazie del Cermis",
quella del 1976 e quella del 1998, perché nessuno, neppure lì, la vuole
chiamare strage.
Venti anni dopo, quelle persone restano senza
giustizia e quasi senza memoria: di molte delle vittime non c'è neppure una
foto. La loro fine potrebbe essere classificata come un danno collaterale, un
errore bellico che si aggiunge alla lunga lista dei crimini delle guerre
balcaniche. Senza saperlo, quei venti sono diventati fratelli dei caduti di
Sarajevo, di Srebrenica, di Mostar. Ma se per gli eccidi della Bosnia e del
Kosovo c'è un Tribunale all'Aja che ancora giudica e punisce, la cabina gialla
del Cermis è stata cancellata dalla Storia: rimossa forse perché
nell'incapacità di individuare le responsabilità si manifesta una responsabilità
collettiva. O forse perché fa troppo paura l'idea che le nostre vite possano
venire troncate al ritorno da una gita sulla neve, senza che nessuno sia stato
capace di dare una spiegazione convincente.
La verità è rimasta in sospeso, come l'altra cabina
gialla, quella dove il 3 febbraio 1998 si trovava il macchinista Marino Costa,
bloccata nel vuoto a causa della fune tranciata dal Predatore. Solo,
terrorizzato, per oltre un'ora in bilico sul baratro, finché un elicottero lo
ha tirato fuori: "Il rumore del cavo che si spezza me lo sogno tutte le
notti. Al processo in America non sono andato. Sarebbe servito a niente. Quello
che è successo e per colpa di chi, tanto, lo sanno benissimo tutti
quanti".
IL DOSSIER
La
Commissione
Il documento più completo per ricostruire la
vicenda del Cermis è la relazione finale della Commissione parlamentare
d'inchiesta. Venne istituita dopo le richieste di diversi partiti, tra cui si
segnalava l'impegno di Verdi, Lega, Rifondazione An. Fu creata il 19 ottobre
1999, dopo il verdetto di assoluzione per lo scontro con la funivia e la
condanna per la sola rimozione della videocassetta. Il presidente era Ermanno
Iacobellis, deputato di An e magistrato.
L'indagine
La commissione ha ascoltato tutte le autorità
italiane politiche coinvolte nella vicenda, i responsabili delle indagini
penali e militari avviate in Italia, i vertici dell'Aeronautica e gli ufficiali
con incarichi relativi alle operazioni delle basi Nato e con una missione a
Washington ha sentito anche esponenti delle forze armate Usa. I lavori della
Commissione non si limitarono a definire le responsabilità dell'equipaggio, ma
si estero alla catena di comando, ai vertici statunitensi delle basi in Italia
e agli ufficiali italiani incaricati di autorizzare i voli.
Le
conclusioni
Furono formulate una serie di proposte sulle
regole dei voli a bassa quota, sull'attività militare Usa in Italia, sulla
revisione delle regole Nato per la giurisdizione dei processi sui militari in
servizio all'estero.
La
relazione
La relazione finale è stata approvata il 7
febbraio 2001. Le conclusioni rimasero sostanzialente inattuate. Da allora non
ci sono state modifiche ai trattati Nato, nè ai regolamenti sulle basi Usa in
Italia: una questione che si è poi riproposta nelle indagini sul sequestro di
Abu Omar e sull'uccisione di Nicola Calipari. Gli unici risultati concreti
raggiunti dopo il Cermis furono quelli della commissione italo-americana
Tricarico - Pruher che ha cambiato le procedure dei voli militari.
https://www.repubblica.it/super8/2018/02/03/news/super8_cermis_20_anni-187924688/
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