La più grande balenottera del
Pleistocene è finalmente ano riemersa
dall’argilla, dove l’avevano lasciata nel 2007, quando il giornalista e
filmaker Renato Sartini aveva raccontato su queste pagine della sua fortuita
scoperta nella diga di San Giuliano, Matera, e dei faticosi lavori di recupero.
Il fossile è rimasto nei sedimenti del
Materano per quasi due milioni di anni, e più precisamente dal Calabriano (fase
del Plestocene che va da 1,8 milioni a 782 mila anni fa) fino al 2011, quando
l’ultimo e più prezioso reperto, il cranio, è stato messo in sicurezza. Ma la
storia della balenottera è ancora in parte da scrivere. Sartini torna a parlare
di lei, questa volta in un documentario, Giallo
ocra. Il mistero del fossile di Matera, che sarà presentato l’8 ottobre a
Napoli in occasione di Futuro Remoto. Il festival, tra le più importanti
manifestazioni scientifiche d’Europa, dedica l’edizione del suo trentennale,
intitolata Costruire, a uno dei temi del momento, la social innovation, ovvero
come idee e progetti innovativi possano migliorare la vita delle persone. Ma a
Napoli si parlerà anche di Mediterraneo, e l’antico cetaceo potrebbe essere il
più grande animale ad averlo abitato. Come spiega uno dei protagonisti di Giallo ocra (dal colore delle vertebre
del fossile), Walter Landini, paleontologo dell’Università di Pisa che ha
diretto la prima fase diretto la prima fase degli scavi, “il reperto di Matera
potrebbe chiarire alcuni aspetti essenziali dell’evoluzione dei cetacei”. La
balenottera era lunga circa 25 metri: tanto, ma oggi la balenottera azzurra e
quella comune – rispettivamente 33 e 26 metri circa – la superano, e questo
sembra confermare la teoria secondo cui le dimensioni dei cetacei sono via via
aumentate in risposta alle glaciazioni degli ultimi due milioni di anni.
Infatti, quanto più è grande la massa di un corpo tanto più lenta è la sua
dispersione di calore. Il Mediterraneo
dove nuotava la balenottera non era solo più freddo rispetto a oggi, aveva
anche una conformazione molto diversa. Spiega un altro protagonista del documentario, il geologo Federico Boenzi:
“Tra Appennino e Murge c’era un’immensa depressione colmata dal mare,
l’Avanfossa Bradanica. Ora quel fondale si è sollevato di circa 400 metri per
via della cosiddetta subduzione della zolla africana sotto quella euroasiatica.
Cioè nella collisione tra le due placche, l’africana si è infilata sotto
l’euroasiatica sollevando la crosta terreste (e dando origine agli Appennini).
L’ultimo terremoto del Centro Italia è collegato a questo fenomeno. Ecco perché
la balenottera era sulle colline, a 40 chilometri dalla costa. Molti altri
dettagli sul grande cetaceo potranno essere chiariti dopo il restauro del
fossile, che ora giace in casse custodide nel Museo archeologico di Matera.
Restauro tanto più auspicabile visto che la balenottera potrebbe diventare uno
dei fiori all’occhiello di Matera nel 2019, quando la città sarà capitale
europea della cultura.
Giulia Villoresi – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 30
settembre 2016 -
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