Un tempo le città nascevano in luoghi dove erano
disponibili acqua potabile, comunicazioni ed energia(legnamuna volta,
elettricità oggi). Ma i posti migliori nel nostro mondo sovraffollato, sono già
tutti presi, così le città del futuro dovranno sorgere in luoghi non tanto
favorevoli, attrezzandosi tecnologicamente per sopravvivere. Per vedere come
questo potrebbe avvenire non occorre spingersi fino a qualche remoto deserto,
basta andare alla Maker Faire di Roma, la fiera dell’innovazione aperta da oggi
fino a domenica 16, che presenta settecento progetti ad alta tecnologia,
provenienti da 65 Paesi del mondo, oltre che dalle nostre Università e Cnr. I
sei padiglioni della fiera saranno dedicati ad altrettante aree di innovazione:
Move (robot e droni); Life (cibo, salute e qualità della vita); Interaction
(elettronica, domotica e giochi); Fabrication (stampanti 3D, riciclo e robot
industriali); Young Makers (inventori sotto i 20 anni); Universities (i progetti
degli atenei). Fra i più attesi, oltre
al primo robot domestico italiano, R1, realizzato dall’Istituto italiano di
tecnologia, ci sarà Watly, un’unità tecnologica integrata per i nuovi centri
urbani, ideato da un gruppo di giovani ingegneri riuniti intorno all’economista
Marco Appisani. “Ho avuto questa idea leggendo il libro di Jeremy Rifkin La terza rivoluzione industriale” dice
Appisani. “Il futurologo americano sostiene che avverrà quando anche la
produzione di elettricità ed acqua sarà nelle mani dei singoli utenti, come è
accaduto con la telefonata grazie ai cellulari che ci hanno liberato dalla
necessità di pesanti infrastrutture centralizzate come le linee telefoniche
fisse. Allora mi sono messo a pensare a come sarebbe possibile svincolare le comunità
delle reti di distribuzione centralizzate, e così è nato Watly”. Si presenta
come una X lunga 40 metri e larga 15, con le braccia coperte di tubi a vuto per
la raccolta del calore solare, usato per potabilizzare per ebollizione fino a
5.000 litri di acqua salata o contaminata al giorno. Al centro della X si trova
una tettoia fotovoltaica in grado di produrre fino a 120 chilowattora
quotidiani, usati per alimentare una rete locale o per ricaricare batterie da
portare nelle case. Infine all’interno della struttura ci sono accumulatori
elettrici, computer di controllo e apparati di comunicazione per il
collegamento a internet e telefonico, anche satellitare. Altri dispositivi e
servizi, come stampanti, terminali di computer, turbine eoliche o droni possono
essere aggiunti al sistema. “Così il nostro dispositivo permetterà la
formazione di nuove comunità umane in aree difficili, oppure di far fare un
salto di qualità a villaggi oggi senza elettricità, acqua potabile e internet”.
Viene da chiedersi se queste comunità possano permettersi il costo di Watly,
sui 77mila euro, o dei suoi servizi. “Il prezzo attuale è quello di un
prototipo: con la fabbricazione in serie il costo crollerà. Quanto al costo dei
servizi per l’utente, dipenderà da chi installa Watly e dove. Per esempio c’è
interesse per i campi profughi in Giordania o pe i villaggi in Nigeria o
Angola: in questi casi ai governi potrebbe convenire installare Watly piuttosto
che portare reti e servizi. Per nuove città in aree più ricche – ho avuto richieste
dai Paesi arabi del Golfo e persino dal Texas
Watly potrebbe essere invece gestito da privati come fornitore di
servizi.
Ma soluzioni
così hi-tech sono la scelta migliore, considerati i rischi di guasti e la
necessità di manutenzione? “Gran parte della progettazione è stata dedicata a
rendere Watly semplice, robusto e con componenti ridondanti: vuol dire che se
ne rompe uno, entra in funzione la riserva, mentre il guasto viene segnalato
via internet alla centrale di manutenzione. Ma oltre questo, visto che siamo
italiani, abbiamo speso molto tempo per rendere Watly bello, così lo si potrà
mettere al centro dell’abitato e farlo diventare il fulcro della vita sociale.
Alex
Saragosa – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 14 Ottobre 2016 -
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