“Ma Perché Non Sono in testa ai sondaggi con 50 punti di vantaggio?” Più
volte, nel corso di questa campagna elettorale, Hillary Clinton ha confidato ai
collaboratori la sua esasperazione. Mentre scrivo, le sue probabilità di
vittoria sembrano buone. Ma con un marine ridotto, o nella migliore delle
ipotesi “normale”. Non quello che ci si aspetterebbe da una candidata
qualificata, esperta, competente, che affronta un cialtrone, ecomaniaco,
narcisista, imbroglione e bugiardo, incompetente e inaffidabile. Bene, ho usato
solo un piccolo campione dalla lista degli aggettivi che solitamente incolliamo
al nome di Donald Trump. Anche noi giornalisti ogni tanto ci scopriamo a
condividere lo stesso pensiero di Hillary: com’è possibile che nei sondaggi
quei due siano ancora relativamente vicini? Apro in un giorno qualsiasi uno dei
grandi giornali americani, il New York
Times o il Washington Post, il Los Angeles Times o il Boston Globe e
mediamente trovo tre, quattro commenti che distruggono Trump. Preceduti, in
prima pagina, da approfondite inchieste che lo inchiodano: imprenditore
incapace, truffatore seriale, evasore fiscale, misogino, razzista. Le eccezioni
ci sono: Fox News, in parte, il Wall
Street Hurnal (dipende dalla firma), le radio locali di destra. Mi assale
una sensazione di “déjà vu”. Vivevo a Milano quando, due anni dopo
Tangentopoli, un certo Silvio Berlusconi si lanciò in politica. Seguii la sua
prima campagna elettorale (1994) mentre ero vicedirettore del Sole 24 Ore. Per le legislative del 1996
ero diventato il capo della redazione milanese di Repubblica. Le successive campagne elettorali le seguii
dall’estero. Ricordo la fatica che facevo a spiegare il fenomeno Berlusconi agli
stranieri. Oggi no, non farei nessuna fatica, anzi sono gli americani a
tracciare analogie fin troppo facili tra Berlusconi e Trump. Ma soprattutto,
ricordo periodi in cui era difficile “ conoscere un berlusconiano”: nella
cerchia dei propri amici e conoscenti, se qualcuno lo votava non te lo diceva.
Poi alle urne erano tanti. Idem per quanto riguarda la stampa, gli
intellettuali, le élite ivi compresi tanti imprenditori (Gianni Agnelli
inizialmente lo snobbava): se toglievi quelli legati a Mediaset, sembrava che
l’Italia colta, influente, autorevole, fosse compatta nel bocciare Berlusconi.
Eppure tre volte ha vinto e ha guidato tre governi. (..). E allora un problema
riguarda quel “noi”, pronome plurale che sto usando dall’inizio. Noi
giornalisti. Noi opinionisti. Noi intellettuali. Noi liberal delle due coste
abitanti di New York, Boston, Washington, San Francisco, Los Angeles. Noi che
ci frequentiamo tra simili e tra le nostre conoscenze fatichiamo a trovare un
elettore (dichiarato) di Trump. Poi la notte tra l’8 e il 9 novembre ci sveglieremo
in un Paese dove molte decine di cittadini avranno votato per Frakestein. Li
abbiamo anche visti, per carità e raccontati. Non c’è report che non si sia
fatto i suoi bei comizi con Trump, immersioni nella folla che lo adora, lo osanna, gli perdona tutto. Ma
poi, una volta tornati in redazione, al momento di scrivere, ci siamo immersi
in un mondo dove “quelli là” sono ovviamente trogloditi, esseri rozzi, dominati
da istinti deteriori. Quando Obama vinse –sia la prima sia la seconda volta .
“Quelli là” tornarono a essere maggioranza in soli due anni, appena si spense
l’eccitazione delle presidenziali si votò per il Congresso. C’è qualcosa che
non funziona nella democrazia, nel discorso pubblico, e nel nostro modo di
raccontare le cose, se due tribù continuano a convivere come separate in casa,
nel più profondo disprezzo reciproco.
Federico
Rampini – Opinioni – Donna di Repubblica – 15 Ottobre - 2016
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