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venerdì 21 ottobre 2016

Lo Sapevate Che: Non ci posso credere: a qualcuno piace Trump...



“Ma Perché Non Sono in testa ai sondaggi con 50 punti di vantaggio?” Più volte, nel corso di questa campagna elettorale, Hillary Clinton ha confidato ai collaboratori la sua esasperazione. Mentre scrivo, le sue probabilità di vittoria sembrano buone. Ma con un marine ridotto, o nella migliore delle ipotesi “normale”. Non quello che ci si aspetterebbe da una candidata qualificata, esperta, competente, che affronta un cialtrone, ecomaniaco, narcisista, imbroglione e bugiardo, incompetente e inaffidabile. Bene, ho usato solo un piccolo campione dalla lista degli aggettivi che solitamente incolliamo al nome di Donald Trump. Anche noi giornalisti ogni tanto ci scopriamo a condividere lo stesso pensiero di Hillary: com’è possibile che nei sondaggi quei due siano ancora relativamente vicini? Apro in un giorno qualsiasi uno dei grandi giornali americani, il New York Times o il Washington Post, il Los Angeles Times o il Boston Globe e mediamente trovo tre, quattro commenti che distruggono Trump. Preceduti, in prima pagina, da approfondite inchieste che lo inchiodano: imprenditore incapace, truffatore seriale, evasore fiscale, misogino, razzista. Le eccezioni ci sono: Fox News, in parte, il Wall Street Hurnal (dipende dalla firma), le radio locali di destra. Mi assale una sensazione di “déjà vu”. Vivevo a Milano quando, due anni dopo Tangentopoli, un certo Silvio Berlusconi si lanciò in politica. Seguii la sua prima campagna elettorale (1994) mentre ero vicedirettore del Sole 24 Ore. Per le legislative del 1996 ero diventato il capo della redazione milanese di Repubblica. Le successive campagne elettorali le seguii dall’estero. Ricordo la fatica che facevo a spiegare il fenomeno Berlusconi agli stranieri. Oggi no, non farei nessuna fatica, anzi sono gli americani a tracciare analogie fin troppo facili tra Berlusconi e Trump. Ma soprattutto, ricordo periodi in cui era difficile “ conoscere un berlusconiano”: nella cerchia dei propri amici e conoscenti, se qualcuno lo votava non te lo diceva. Poi alle urne erano tanti. Idem per quanto riguarda la stampa, gli intellettuali, le élite ivi compresi tanti imprenditori (Gianni Agnelli inizialmente lo snobbava): se toglievi quelli legati a Mediaset, sembrava che l’Italia colta, influente, autorevole, fosse compatta nel bocciare Berlusconi. Eppure tre volte ha vinto e ha guidato tre governi. (..). E allora un problema riguarda quel “noi”, pronome plurale che sto usando dall’inizio. Noi giornalisti. Noi opinionisti. Noi intellettuali. Noi liberal delle due coste abitanti di New York, Boston, Washington, San Francisco, Los Angeles. Noi che ci frequentiamo tra simili e tra le nostre conoscenze fatichiamo a trovare un elettore (dichiarato) di Trump. Poi la notte tra l’8 e il 9 novembre ci sveglieremo in un Paese dove molte decine di cittadini avranno votato per Frakestein. Li abbiamo anche visti, per carità e raccontati. Non c’è report che non si sia fatto i suoi bei comizi con Trump, immersioni nella folla che  lo adora, lo osanna, gli perdona tutto. Ma poi, una volta tornati in redazione, al momento di scrivere, ci siamo immersi in un mondo dove “quelli là” sono ovviamente trogloditi, esseri rozzi, dominati da istinti deteriori. Quando Obama vinse –sia la prima sia la seconda volta . “Quelli là” tornarono a essere maggioranza in soli due anni, appena si spense l’eccitazione delle presidenziali si votò per il Congresso. C’è qualcosa che non funziona nella democrazia, nel discorso pubblico, e nel nostro modo di raccontare le cose, se due tribù continuano a convivere come separate in casa, nel più profondo disprezzo reciproco.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di Repubblica – 15 Ottobre - 2016

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