Da sempre il tema della mamma è un
pozzo, sconfinato, dunque niente di nuovo. Eppure adesso, nelle storie in cui
siamo immersi, sembra in corso una “stagione della madre” più che mai
articolata e pressante. La figura materna perseguitata, colpevolizzata,
schiaccia, sostiene e avvinghia come un tormento. La madre non è “un altro”: la
madre siamo noi. Contiene il nucleo della nostra identità. Nel tempo
dell’inconsapevolezza liquida, dell’infantilismo irrisolvibile, della ridefinizione
dell’idea di famiglia, stiamo dimostrando un bisogno immenso di recuperare il
racconto della madre. La madre è un macigno per Pip, eroina brillante e
nevrotica del romanzo di Jonathan Franzen Purity. In pratica si è già detto tutto
su questo libro magistrale, ma forse non abbastanza sulla madre single di Pip,
raffigurata come una hippie, ipocondriaca che incastra la figlia in un amore
incombente. Nel peculiare sistema economico di sua madre, scrive Franzen, Pip
era una banca troppo grande per poter fallire, un’impiegata troppo
indispensabile per poter essere licenziata per cattiva condotta. Anche alcuni
suoi amici di Oakland avevano genitori problematici, ma riuscivano comunque a
parlarci tutti i giorni senza eccessive manifestazioni di stranezza, perché
persino i più problematici avevano risorse che non si limitavano al loro unico
discendente. Nel mondo di sua madre, invece, esisteva solo Pip”.(..). La mamma,
si sa, è un’eterna fissazione del regista Pedro Almodovar, fertilissimo
sull’argomento. Che oggi continui a oensarci non sorprende. Ma spiazza il fatto
che Pedro, per costruire il film Julieta, si sia ispirato ai racconti di Alice
Munro, minuziosa esploratrice di abissi interiori. (..). L’intero mondo, lungo
la narrazione, gira nella prospettiva di Julieta e nella sua coscienza delle
proprie zone di materna doppiezza. Non a caso per interpretarla, in differenti
fasi della vita, Pedro sceglie due attrici che neppure si somigliano tra loro.
Nulla di realistico alimenta questa parabola sul rapporto madre-figlia come
nocciolo profondo della vita. In tutt’altro stile, ma con la medesima
centralità, la dimensione dell’assenza plasma il libro. Mi chiamo Lucy Barton,
dove la scrittrice americana Elizabeth Strout ci offre la cronaca dei cinque
giorni passati da una figlia con sua madre nella stanza di un ospedale
newyorkese. Lucy giace a letto dopo una brutta operazione. Partita dalla
cittadina rurale di Amgash, nell’Illinois, la mamma arriva a visitarla e a
tenerle compagnia. Per farlo parla, parla, parla, immettendola in un fiume di
chiacchiere leggere, aneddoti minuti e resoconti insignificanti. Ma è sull’onda
di quella voce timida e inderogabile, che rassicura perché avvolge e maschera
le cose, che Lucy, ormai adulta e scrittrice, e a sua volta diventata madre,
può ricostruire i propri trascorsi di miseria e sofferenza, tenuti ben foderati
dal non detto. Lucy sa che quella madre goffa, approssimativa e provinciale è
all’origine di gran parte delle sue angosce e insicurezze. Tuttavia non può non
amarla, di un amore imperfetto e custodito dentro l’afasia. Che rappresenta la
condanna e il paradigma di tanti amori non solo materni.
Leonetta Bentivoglio – Donna di Repubblica – 27 agosto – 2016
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