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sabato 3 settembre 2016

Lo Sapevate Che: Le famiglie sono tante, ma di mamma ce n'è una sola....



Da sempre il tema della mamma è un pozzo, sconfinato, dunque niente di nuovo. Eppure adesso, nelle storie in cui siamo immersi, sembra in corso una “stagione della madre” più che mai articolata e pressante. La figura materna perseguitata, colpevolizzata, schiaccia, sostiene e avvinghia come un tormento. La madre non è “un altro”: la madre siamo noi. Contiene il nucleo della nostra identità. Nel tempo dell’inconsapevolezza liquida, dell’infantilismo irrisolvibile, della ridefinizione dell’idea di famiglia, stiamo dimostrando un bisogno immenso di recuperare il racconto della madre. La madre è un macigno per Pip, eroina brillante e nevrotica del romanzo di Jonathan Franzen Purity. In pratica si è già detto tutto su questo libro magistrale, ma forse non abbastanza sulla madre single di Pip, raffigurata come una hippie, ipocondriaca che incastra la figlia in un amore incombente. Nel peculiare sistema economico di sua madre, scrive Franzen, Pip era una banca troppo grande per poter fallire, un’impiegata troppo indispensabile per poter essere licenziata per cattiva condotta. Anche alcuni suoi amici di Oakland avevano genitori problematici, ma riuscivano comunque a parlarci tutti i giorni senza eccessive manifestazioni di stranezza, perché persino i più problematici avevano risorse che non si limitavano al loro unico discendente. Nel mondo di sua madre, invece, esisteva solo Pip”.(..). La mamma, si sa, è un’eterna fissazione del regista Pedro Almodovar, fertilissimo sull’argomento. Che oggi continui a oensarci non sorprende. Ma spiazza il fatto che Pedro, per costruire il film Julieta, si sia ispirato ai racconti di Alice Munro, minuziosa esploratrice di abissi interiori. (..). L’intero mondo, lungo la narrazione, gira nella prospettiva di Julieta e nella sua coscienza delle proprie zone di materna doppiezza. Non a caso per interpretarla, in differenti fasi della vita, Pedro sceglie due attrici che neppure si somigliano tra loro. Nulla di realistico alimenta questa parabola sul rapporto madre-figlia come nocciolo profondo della vita. In tutt’altro stile, ma con la medesima centralità, la dimensione dell’assenza plasma il libro. Mi chiamo Lucy Barton, dove la scrittrice americana Elizabeth Strout ci offre la cronaca dei cinque giorni passati da una figlia con sua madre nella stanza di un ospedale newyorkese. Lucy giace a letto dopo una brutta operazione. Partita dalla cittadina rurale di Amgash, nell’Illinois, la mamma arriva a visitarla e a tenerle compagnia. Per farlo parla, parla, parla, immettendola in un fiume di chiacchiere leggere, aneddoti minuti e resoconti insignificanti. Ma è sull’onda di quella voce timida e inderogabile, che rassicura perché avvolge e maschera le cose, che Lucy, ormai adulta e scrittrice, e a sua volta diventata madre, può ricostruire i propri trascorsi di miseria e sofferenza, tenuti ben foderati dal non detto. Lucy sa che quella madre goffa, approssimativa e provinciale è all’origine di gran parte delle sue angosce e insicurezze. Tuttavia non può non amarla, di un amore imperfetto e custodito dentro l’afasia. Che rappresenta la condanna e il paradigma di tanti amori non solo materni.
Leonetta Bentivoglio – Donna di Repubblica – 27 agosto – 2016 -

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