Tornare In Cina, per me, prima di tutto vuol dire,
rivedere i miei bambini. Beh, bambini non lo sono più da un pezzo. Le ragazze
hanno 22 anni. Il ragazzo 19. Per me, resteranno sempre bambini, come quando li
trovai, nel 2005, in un villaggio sperduto e misero sulle montagne dello
Sichuan, lontano dalla modernità sfavillante di Pechino. Abbandonati in uno
squallore da incubo, in quel villaggio c’erano solo piccoli orfani e vecchi
decrepiti, la generazione di mezzo era stata decimata dall’Aids, dalla droga,
dal carcere. Una storia orrenda, che ho raccontato altrove, di cui è vittima
una minoranza etnica ancora più sparuta e derelitta dei tibetani: il popolo Yi.
Tre di quegli orfani divennero nostri figli adottivi, a tutti gli effetti,
anche se l’adozione legale ci venne subito vietata (per una serie di ostacoli
della legge cinese, fra cui la differenza di età troppo alta tra noi e loro).
Da allora lo sforzo per strapparli a un destino terribile è andato avanti con molte
difficoltà, grazie a due sostegni indispensabili: la mia assistente Zhang Yin,
che lavorava con me quando ero corrispondente a Pechino e da allora è diventata
un’amica vera; e l’Ong locale, fondata da uno di loro, che cerca di aiutare il
popolo degli Yi. Abbiamo imparato due lezioni. Per esempio che l’affetto e i
soldi non bastano a sanare i traumi subiti nell’infanzia. Che certe tragedie
familiari di segnano per sempre.(..). Di recente ci siamo riuniti a Pechino per
il nostro bilancio familiare annuo. Lisa – alla nascita è Shanzha ma la prof
d’inglese le ha dato anche un nome occidentale – è quella che ha avuto un
rendimento scolastico un po’ migliore. Sia pure con quattro anni di ritardo,
sta per ottenere la maturità e i suoi insegnanti le danno qualche speranza di
superare l’esame di ammissione ad una università di serie B o C (in Cina il
sistema scolastico è ferocemente selettivo). Sogna di diventare un impiegata di
banca, perché ha sentito dire che “la paga e buona”. Julia (vero nome Che Ge)
non riusciva a fare il liceo, quindi su consiglio dell’Ong l’abbiamo iscritta a
una scuola alberghiera nella capitale provinciale Chengdu. Spera di essere
assunta come cameriera in un albergo locale. Il fratello di Julia purtroppo à
in cura per un’epatite che lo tiene lontano dalla scuola. (..). Non fanno
sconti a quei ragazzi per lo scarso rendimento scolastico, neanche alla luce
della loro storia tragica. All’ultima riunione di famiglia a Pechino, siamo
stati istruiti così dall’Ong dobbiamo dire a Julia che appena comincerà a
ricevere il salario da cameriera, noi non le manderemo più nulla. Non vogliono
alimentare in questi ragazzi una cultura della dipendenza, non vogliono che
diventino degli assistiti a vita. E’ stato un incontro difficile, a casa di
Zhang Yin, Julia, con le lacrime agli occhi, ha chiesto se le pagheremo ancora
i viaggi a Pechino per incontrarci. E l’affitto di un monolocale a Xichang, l’unico
luogo dove i tre amici possono riunirsi. Noi benediamo Weixin, un social media
cinese (un po’ Whatsapp e un po’ Facebook) che ci consente di mantenere il
dialogo a distanza, di vedere le foto della loro vita quotidiana, di
rassicurarli che comunque ci saremo sempre, perché i figli non si abbandonano.
E’ commovente l’attaccamento al loro villaggio d’origine, l’inferno della loro
infanzia. Ci tornano quando possono, mostrano orgogliosi i primi segn di
miglioramento: una strada asfaltata dove prima c’erano solo sentieri polverosi.
Nelle feste tradizionali indossano con orgoglio i costumi antichi di quella gente,
che a poco a poco scompare.
Federico Rampini – Donna di Repubblica -17 Settembre 2016
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