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giovedì 29 settembre 2016

Lo Sapevate Che: E' l'amore di sè l'ultima buona ragione per vivere...



Sono uno psichiatra e nel 2014 mi viene diagnosticato un carcinoma con metastasi ossee. Inizio un ciclo di chemioterapia molto aggressiva, e non le nascondo che alla fine del ciclo di questo farmaco tremendo abbia guardato il balcone con la fantasia di un bel volo. Nel 2015 in un incidente stradale muore il mio unico figlio di 27 anni. Sono divorziata, non ho relazioni sentimentali e i miei familiari stretti sono fuggiti via nell’anaffettività più totale. Ho perso il lavoro che era il perno su cui avevo fondato la mia esistenza. Ho provato a fare qualche incontro con gli psicoanalisti, ma li ho visti in difficoltà, quasi imbarazzati rispetto al mio dolore. Sono atea, ma in seguito della perdita di mio figli sono andata in chiesa alla ricerca di un contatto con una dimensione altra, spirituale; ma non è durata molto; la mia parte razionale, non so come definirla, sì è ribellata. Ora, vorrei chiederle: secondo Lei per un essere umano qual è il limite di sopportazione del dolore psichico, fisico, a cui si aggiunge il senso di precarietà (anche del piccolo progetto) e la rinuncia a un’esistenza, a quel mondo prima così importante, ora deprivato del senso di appartenenza e condivisione? Il mio “astio” per le religioni in questo momento si fa più presente, perché ci hanno intriso di un’idea di sacralità e inviolabilità della vita. Ritengo che quello che ancora mi mantiene è il sentimento di rispetto per la mia storia e quella piccola fiamma di vita che malgrado tutto e a dispetto di tutto (residuo di una me combattente?) mantiene una sua tenue luce…ma per quanto ancora? A differenza delle letture psicoanalitiche, provo conforto in quelle filosofiche , come se a volte riuscissero ad agganciarmi a un qualche sesnso che ancora mi tiene e mi contiene, ma per quanto ancora? Non so se mi risponderà. Comunque mi farebbe piacere.   Mariateresa Caporaso   mariateresacaporaso@libero.it

Non Credo Di avere diritto di dare risposte a sofferenze di questo genere che, prese nel loro complesso e nel loro rapido succedersi, si aggrovigliano al punto tale da soffocare l’anima di chi vive, e di fare apparire irrispettosa ogni parola di commento. E allora, in punta di piedi, proviamo a infrangere quel muro di silenzio che si creerebbe se tutti, di fronte alle sue sofferenze, per rispetto tacessero. Se nel percorrere la sua vita si sofferma su quando era innamorata dell’uomo da cui poi ha divorziato, o sulla sorte di quel figlio che le era rimasto come unico e profondo riferimento affettivo, dopo la fuga dei familiari più stretti a seguito della sua malattia, a cui si è aggiunto il disagio degli psicanalisti nell’ascoltare e rispondere alle sue sofferenze. (..). E allora dislochiamoci dal passato che apparteneva a un’altra vita, e non guardiamo il futuro  con la malinconia di chi lo vede come avrebbe potuto essere se non fosse accaduto tutto quello che è accaduto. Collochiamoci nel presente con tutto il suo carico di disgrazie ereditate dal passato e assumiamo come motivazione  per continuare  a vivere quello che lei ha già assunto e così descritto: “Il sentimento di rispetto per la mia storia e quella piccola fiamma di vita che malgrado tutto e a dispetto di tutto (residuo di una me …?) mantiene una tenue luce…ma per quanto ancora?)”. Io chiamo questo sentimento: “amore di sé” disprezzandolo come egoismo o egocentrismo. Ma quando stai morendo di cosa ti affliggi? Della perdita dei tuoi beni? Della perdita dei tuoi affetti? No. Quando stai morendo reciti questa parte, ma in realtà ciò di cui ti affliggi è la perdita di te, perché, dopo aver vissuto una vita con te stesso, ti sei innamorato di te, ed è la perdita di questo amore che tormenta la tua agonia. Lei, gentile dottoressa dell’anima, si ama ancora e quindi non è ancora degna della morte. Parta da questo amore che ancora la percorre nel presente per apririsi un futuro, che non è quello generato dal suo terribile passato, ma quello che quotidianamente si genera a partire dall’amore per sé. Mi tenga tra i suoi compagni di futuro, quando la notte si fa più buia del solito.
Umbertogalimberti@repubblica.it  Donna  di Repubblica  - 4 settembre 2016 -

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