Eppure Ha Preso Piede l’idea, sospinta forse dal generoso
tentativo di Bernie Sanders e da quei ragazzi che l’applaudivano nel corso
della campagna presidenziale americana, che ci sia anche un “populismo” buono”,
insomma che si possa provare a fare politica “dalla parte del popolo” E “contro
le élite”. Perché? Ed è proprio così? Proviamo? Ed è proprio così? Proviamo a
rispondere. Ma prima, come nei romanzi di una volta, facciamo un passo
indietro. Di populismo moderno si parla in realtà da quasi trent’anni: si
cominciò con Le Pen padre (primo exploit, 14 per cento dei voti alle
presidenziali del 1988) e si continuò con Silvio Berlusconi (1994, discesa in
campo) pensando a Juan Domingo Peròn e dunque rafforzandosi nella convinzione che
il nuovo virus populista, nonostante gli antichi lombi socialisteggianti,
potesse attecchire solo a destra. E ce s’è visto che sono germogliate piante
anche a sinistra Podemos in Spagna o Syriza in Grecia. Nel tempo, però, le cose
si sono fatte più complicate perché parole d’ordine tradizionalmente di destra
o di sinistra si sono fuse e mescolate – esemplare il caso Cinque Stelle – e il
vento populista è soffiato trasversalmente, anche fuori dell’Europa matrigna,
della moneta unica e della flessibilità negata: in quella che fu l’Austria
felix è esploso Norbert Hofer, xenofobo e antieuropeo; movimenti simili al suo
sono sorti in Svizzera o in Norvegia, che non aderiscono all’Ue; perfino la
Gran Bretagna, patria del liberismo e del parlamentarismo, s’è inchinata al
populismo fino a concepire la Brexit. (..) Se E’ Questa La Miscela che alimenta i populismi, le forze
politiche tradizionali hanno risposto finora nel peggiore dei
modi:demonizzandoli, denunciandone limiti, incompetenze e irrazionalità (innegabili)
o magari scimmiottandone le parole d’ordine più facili attingendo al lungo
catalogo degli sprechi, dei privilegi, della casta. Ma sui problemi di fondo, e
sulle conseguenze sociali e politiche che ne derivano, nessuno riflette
davvero: sono dieci anni che si parla invano di crisi economica, altrettanti di
convivenza con un’inarrestabile ondata migratoria, più di quindici da quando
Osama bin Laden ordinò di abbattere le Twin Towers. Crisi e globalizzazione
hanno reso più ricchi i ricchi e più poveri i poveri acuendo differenze
economiche e sociali, e ogni tentativo dei partiti storici di formare una
classe dirigente più vicina alle esigenze dei giovani e capace di ridurre
divari crescenti è miseramente fallita. Perché poi la reazione rabbiosa a tali
sconfitte, alimentata da paure e incertezze, sia quella di finire nelle braccia
di Salvini o di Grillo, di Trump o della famiglia Le Pen, bè, ciò appartiene
all’insondabile, e anche all’irrazionale perché i nuovi populisti sono stati
rispetto a coloro che finora non sono stati capaci di trovare soluzioni e hanno
brillato invece per malgoverno, privilegi, corruzione diffusa. Alla fine, resta
la considerazione che all’esercito dei populisti, si possono riservare lazzi e
reprimende, meritati, ma le esigenze che disordinatamente e demagogicamente
rappresentano – domande giuste, risposte sbagliate – quelle andrebbero prese
maledettamente sul serio. Nell’interesse di tutti. Se non altro perché il tempo
passa e, nonostante gli inevitabili scivoloni (valga per tutti il misero
esordio di Virginia Raggi), non è affatto detto che i consensi persi tornino
poi lì da dove sono venuti. A meno che le forze politiche non dimostrino di
aver capito la lezione, si rinnovino davvero e comincino a cercare risposte
convincenti.
Bruno Manfellotto – Questa settimana – www.lespresso.it
@bmanfellotto – 18 settembre 2016
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