Sto leggendo Il cacciatore celeste di Roberto
Calasso, dove si dice: “Al tempo del Grande Corvo, anche l’invisibile era
visibile. E continuamente si trasformava. Gli animali, allora, non erano
necessariamente animali. Poteva darsi il caso che fossero animali, ma anche
uomini, dei, signori di una specie, demoni, antenati. E così gli uomini non
erano necessariamente uomini, ma potevano anche essere la forma transitoria di
qualcos’altro”. Questa riflessione è riferita, penso, all’alba della storia
dell’umanità e dà l’immagine di tutto il lungo processo di razionalizzazione
per raggiungere l’attuale equilibrio (?) psicologico dell’umanità. Ricordo un
adolescente che nei momenti di crisi vedeva la “vecchia” o il “diavolo” o
qualche altra figura immaginaria, da cui poi si liberava con fatica, con
l’aiuto di farmaci. Mi chiedo: la malattia psichica è una patologia “recente”,
venuta fuori con la “civilizzazione” dell’umanità, con la conquista della
logica razionale che imbriglia quanto esula dall’equilibrio dato
dall’educazione? Gaetano Rasola gaetano@aliceposta.it
Bei Tempi, Quando Il
Principio di tutte
le cose non era Dio, ma la Natura che, come ci ricorda Eraclito, era concepita
come “quello sfondo immutabile che nessun dio e nessun uomo fece”. E perciò
conteneva uomini e dèi, animali e piante, nubi minacciose e onde inquietanti,
in una metamorfosi continua. Proprio come è tutt’ota nel sottosuolo della
nostra anima, e come ogni notte si annuncia nei sogni che, prima di essere
interpretati, vanno goduti come si gode quando si incontra l’altra parte di noi
stessi, non appena si apre il sipario sul teatro della follia che ci abita. Solo
per il terrore di incontrarla, o per il terrore che ne ha la società, riduciamo
a “malattia”. E così facendo, come diceva Basaglia, la razionalizziamo. Non
solo i sogni notturni, ma anche i sogni a occhi aperti sono pieni di
metamorfosi e di trasformazioni, quando appunto si sogna di non essere quello
che si è, quando immaginiamo una seconda vita, una seconda identità, oppure di
perderci tra le nuvole o negli abissi del mare, per riapparire tra gli uomini
come volatili del cielo o sirene marine. Sogni diurni che, come le antiche
storie raccontate dai miti, sono piene di passioni, di sesso, di violenza, di
sangue persino di morte. Tutta roba da non liquidare con la scusa che sono solo
immaginazioni o fantasticherie: in realtà sono i percorsi segreti della nostra
anima, che si annunciano in questa forma metaforica per non spaventarci, per
evitarci di aver paura di noi stessi. Quelli davvero siamo noi.(..) Sarà per
questa superiorità che ci sentiamo autorizzati a trattare la terra come se
altro non fosse che semplice materia prima, per cui posiamo inquinare l’aria e
l’acqua, disboscare le foreste, estinguere le specie animali, o allevarle in
condizioni spaventose che preferiamo ignorare quando ne consumiamo le carni.
Non abbiamo ancora inventato una morale che si faccia carico degli enti di
natura, perché lr uniche morali che abbiamo ideato sono quelle che tendono a
ridurre la conflittualità tra gli umani. E siccome una morale funziona quando,
interiorizzata , diventa psiche collettiva il fatto che non ci sia una morale a
salvaguardia degli enti di natura dice quanto la nostra psiche dalla natura si
allontana. All’anima resta solo il buio della notte con il suo corredo di
sogni, per connettersi con la natura, che un giorno era la sua casa, popolata
da animali che talvolta diventavano uomini e talvolta dèi, e da dèi che
diventavano fulmini, tuoni, animali marini, e aquile del cielo. Chi pensava
queste cose non era un pazzo, come sarebbe ritenuto oggi, perché la cultura che
le accoglieva non era ancora tanto impoverita da saper solo, come ci ricorda
Heidegger, “far di conto (Denken als rechnen)”
Fuori quel recinto, tutto è infantile, stravagante, folle, pazzo. E questo
sarebbe il progresso della civiltà.
umbertogalimberti@repubblica.it Donna di Repubblica – 17 settembre 2016
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