Le Statistiche Dicono che
ogni quattro secondi una donna mette al mondo un bambino. Il problema è trovare
quella donna e fermarla”. La folgorante battuta è del comico inglese Henry
Youngman. Oggi però trovare quella donna non basta più, perché a fare figli ci
si sono messi in tanti. Uomini compresi. Come e perché il concepimento sia
diventato una pratica trasversale, che va al di là dei sessi, dei generi e
dell’età, lo racconta la genetista britannica Aarathi Prasad in Storia naturale del concepimento. Come la
scienza può cambiare le regole del sesso (Bollati Boringhieri). Il
sottotitolo contiene, di fatto, la chiave del libro. Perché la tesi di Prasad è
che nell’antica idea della donna come madre per natura stiamo entrando in una
nuova era della procreazione, in cui a dettare legge non è più la natura, ma la
scienza e la tecnologia che offrono agli individui una libertà di scelta finora
impensabile. Nel caso che la fecondazione assistita sta progressivamente mettendo
fuori gioco il pensiero unico della maternità. Quello che dalla notte dei tempi
considera la donna il solo essere concepito per concepire. Un’incubatrice
ambulante. Una portatrice passiva. Lo dicono le parole stesse che nelle varie
lingue si riferiscono alla generazione. A partire dal latino concipere – da cui il nostro
concepimento. il francese e l’inglese conception,
lo spagnolo concepciòn – che
significa contenere qualcosa. Fino a termini come il tedesco Empfaingnis, ricevere, o l’italiano
gravidanza, che ha il peso e la fatica nel nome. E persino un vocabolo
apparentemente lontano come matrimonio, vuol dire letteralmente “compito della
madre”. Un’idea quasi agricola della procreazione, specchio di una natura e di
una società entrambe immutabili, che assegnano le parti una volta per tutte.
Alla femmina quella di terra da seminare, al maschio il ruolo di seminatore.
Proprio così Eschilo chiama il padre. Eppure anche prima dell’inseminazione
assistita, ci sono stati degli esploratori dell’avvenire che sono andati oltre
le colonne d’Ercole della procreazione cosiddetta naturale. Nel 1500 il grande
filosofo e alchimista Paracelso cercò di riprodurre l’origine della vita
sigillando del seme maschile in un’ampollina di vetro e magnetizzandolo. Col risultato
di ottenere una cosa che assomigliava a un feto. Una via di mezzo tra la larva
e l’ectoplasma, chiamata homunculus, da impiantare in una giumenta che avrebbe
dovuto fungere da utero in affitto, Insomma Paracelso può essere considerato il
precursore della fecondazione in vitro. E il suo homunculus è a tutti gli
effetti il cugino di Superbabe, soprannome attribuito dall’Evening Neus a
Louise Joy Brown, la prima bambina concepita in provetta nel luglio 1978. E che
adesso è sempre meno sola, visto che negli Stati Uniti a nascere in laboratorio
è un bambino su cento. E in Inghilterra addirittura uno su cinquanta. Cifre che
bastano da sole a dare l’idea del terremoto che sta rimettendo in discussione
l’universo della parentela. (..).Come dimostra il caso di Thomas Beatie che nel
2008 è stato il primo transgenico al mondo a dare alla luce una bambina, dopo
essere diventato un maschio- senza però sottoporsi all’isterectomia – con
l’aiuto di un ovulo di sua moglie Nancy e lo sperma di un donatore esterno.
“Avere un bambino non è né maschile né femminile. E’ semplicemente umano”, ha
dichiarato allora ai giornali. E nello stesso anno, in Australia, gli
scienziati del Dipartimento di medicina del Nrw South Wales hanno creato il
primo utero artificiale servendosi di un oggetto comunissimo ed economicissimo
come un contenitore di plastica. Con buona pace della sacralità dell’utero
materno. Da quel momento anche i maschietti possono far propria una
rivendicazione femminista come “l’utero è mio e me lo gestisco io”. E forse in
un futuro neanche troppo lontano, il vero uomo sarà quello che affronta
coraggiosamente i dolori del parto.
Marino
Niola –Opinioni – Donna di Repubblica – 17 settembre 2016 -
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