Ho 74 anni e ritengo
che il femminismo, insieme al Sessantotto, abbia creato voragini di mediocrità
nelle nuove generazioni. Lo so che è dura da accettare, ma lasciatevelo dire da
un sessantottino verace che ha sempre intravisto negli slogan il senso del
paradosso e dell’eccesso, giustificato dal fatto che la nostra generazione
poteva vendere baggianate, o non sense, o slogan, perché affidava loro
un’accezione di sovvertimento dell’ordine costituito onde contrapporsi al
passato, al conformismo, al vissuto pedante e saccente di un paternalismo
svuotato dei suoi presupposti. Ma quanto
pesano quegli slogan e come potevano essere interpretati dai nostri figli? Se
ne sono imbevuti senza difese, hanno assorbito ciò che di superficiale appariva
e ci hanno creduto! Con lo slogan: “privato è uguale pubblico” si è fomentata
l’idea che il proprio anarchico impegno fosse sufficiente a garantire
credibilità e valore alle azioni. Allo stesso modo, il femminismo ha sconquassato
le generazioni successive perché l’uomo non ha saputo riciclare i propri
standard di valori con qualcosa che equilibrasse la forza ritrovata e
riconosciuta della donna. Marco Maggiani marco.mag@libero.it
Una delle ipocrisie senili consiste
nel rimpiangere la perduta giovinezza elencando e condannando tutti gli errori
compiuti in quell’età. Così si ha il modo di consolarsi per la saggezza
raggiunta in età avanzata. Evitiamo questi inganni e la disapprovazione tardiva
degli eccessi della giovinezza, perché gli eccessi prima o poi rientrano, ma
senza eccessi è difficile cambiare le cose. Così come per un adolescente è
difficile emanciparsi dal mondo genitoriale senza sbattere la porta, anche se
poi, a emancipazione avvenuta, la porta l’apre e la chiude educatamente. Lei
rimprovera il sessantotto di aver venduto baggianate e slogan spregiudicati
contro l’ordine costituito senza rendersi conto degli effetti che questi slogan
avrebbero avuto sulle generazioni successive che li hanno fatti propri senza
difese, e poi rimprovera al femminismo di aver rivendicato i diritti delle
donne senza che gli uomini avessero il tempo e la possibilità di riequilibrare
le cose, rendendo così difficile il rapporto tra i sessi. Io le ricordo che
prima del Sessantotto l’accesso all’istruzione e quindi alla cultura era di
fatto consentito solo ai figli delle classi abbienti, per cui alla classe dei
non abbienti era di fatto preclusa l’ascesa della scala sociale. Prima del
Sessantotto la condizione della donna, oltre a essere limitata all’ordine di
moglie e di madre, era di totale subordinazione al maschio. E se poi la sua
emancipazione ha messo i maschi in crisi, ciò vuol dire solamente che la loro
forza era garantita dalla cultura del tempo più che dalla natura virile. Il
sessantotto infine ha liberato i folli dalla condizione manicomiale, ideata non
per la loro cura ed eventuale guarigione, ma per difendere la società dal
disturbo che arrecano i pazzi. Aver evidenziato che i folli, oltre che per la
follia, soffrono anche e magari soprattutto per la mancata accettazione della
loro diversità, non mi pare un brutto messaggio. Lei rifiuta lo slogan “privato
uguale pubblico” perché crea le premesse per comportamenti anarchici. In realtà
lo slogan era “il privato è politico” perché per limitarci agli esempi sopra
riportati, è politica la difficoltà di accesso dei non abbienti alla scuola, è
politica la gestione della sessualità femminile, è politica la reclusione dei
folli. Perché se la politica non si occupa delle condizioni di esistenza dei
suoi cittadini, che politica è?(..). Per effetto di questa confluenza di slogan
libertari dell’emancipazione si è concretizzata un’oppressione peggiore, ma più
mascherata, di quella che vigeva prima del Sessantotto. Un movimento che è
fallito non per ciò che si proponeva, ma perché è stato assorbito dal suo
opposto, che parlava il suo stesso linguaggio con intenzioni radicalmente
differenti.
umbertogalimberti@repubblica.it - Donna di Repubblica – 3 settembre 2016
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