Un anno fa la storia di Ahmed Mohamed
aveva indignato e poi commosso l’America. L’Adolescente inventore era stato
arrestato in Texas dopo aver portato un orologio di sua fabbricazione in
classe, solo perché il suo volto e il suo nome ne avevano fatto
“automaticamente” un potenziale terrorista. A mostrargli solidarietà sui social
media erano intervenuti prima il fondatore di Facebook Mark Zuckernerag e poi
Barack Obama (“geniale il suo orologio”, twittò il presidente). Obama in
seguito lo aveva invitato più volte alla Casa Bianca. Per ripagarlo
dell’umiliazione subita, additarlo ad esempio e dimostrare che l’America
accoglie a braccia aperte i talenti stranieri. Anche se islamici. Ma c’è un
pezzo d’America che non la pensa così. E si è presa la sua rivincita. Mohamed
non abita più fra di noi. Non gli bastava l’ammirazione di Obama, né l’essere
divo diventato una piccola star nel mondo dei giovani cervelli appassionati
d’invenzioni tecnologiche. Preferisce una vita tranquilla. Sembra il colmo. ma
se la va a cercare nel Golfo Persico. Dove chiamarsi Ahmed Mohamed, per lo meno, non attira
l’attenzione. Donald Trump non c’entra stavolta. Ma i suoi ammiratori e seguaci
nella v sì. Sono loro ad aver avuto l’ultima parola, nella vicenda cominciata
il 15 settembre del’anno scorso. Quel giorno nel liceo di Irving, una cittadina
del Texas vicino a Dallas, il 14enne Ahmed Mohamed arriva in classe portando il
frutto di un suo progetto: appassionato di piccoli lavori ingegneristici, ha
messo a punto da solo un orologio digitale. In una scatola a parte ha messo i
cavetti che servono a collegarlo alla presa elettrica. Una prof d’inglese vede
quei fili che escono dalla scatola, squadra Ahmed: bruno, capelli ricci
nerissimi, le sue origini etniche sono inconfondibili (il padre è un arabo del
Sudan, fuggito con la famiglia negli Stati Uniti per salvarsi dalle
persecuzioni religiose). Altri prof di quella scuola conoscono le prodezze
tecniche di Ahmed, spesso gli chiedono di aggiustargli computer e smartphone.
Ma l’insegnante inglese non sa, e lancia l’allarme: bomba in classe. Arriva la
polizia, Ahmed viene ammanettato e portato via. In commissariato lo interrogano
senza la presenza di un legale. E anche se viene rilasciato dopo poche ore,
arriva la sanzione della scuola: sospensione disciplinare. Della storia si
accorge il quotidiano Dallas Morning News. Poi un blogger specializzato in
tecnologia, Anil Dash. Il caso diventa virale, nelle prime 24 ore dalla
notizia, un milione di americani, un milione di americani esprimono la loro
solidarietà con l’adolescente, twittando #IdtandwithAhmed, “io sto con Ahmed”.
Fino ad attrarre l’attenzione di Obama, di
Zuckerberg, e di tanti altri. Il ragazzino geniale viene invitato alla
Nasa. Partecipa a una conferenza dell’Onu al
Palazzo di Vetro. Altro che ammanettarlo, l’America, progressista ne
vuol fare un modello per tanti suoi coetanei. Ma l’attenzione di quest’America
si dilegua col passare dei mesi. Le subentra un’altra nazione, feroce e
crudele, la sua gemella nemica. Razzista, Islamofoba, in cerca di vendette
contro il gesto pianificatore di Obama. Nei social media di descrivono tra
cominciano le insinuazioni: Ahmed e la sua famiglia sarebbero degli imbroglioni
in cerca di fama. Peggio, alcune teorie del complotto lo descrivono come un
docile strumento nelle mani di gruppi islamici che vogliono screditare la
polizia del Texas. Arrivano minacce, anche di morte. Via via che la storia di
Ahmed sparisce dalle prime pagine dei giornali, altri media più discreti ma
tenaci se ne impadroniscono. La trasformano in una contro storia. La notorietà
diventa un pericolo. Il ragazzino non regge allo stress, il padre teme per il
suo equilibrio. Arriva, benefica, l’offerta di una borsa di studio dalla Qatar
Foundation. I legali di Ahmed convocano una conferenza stampa e annunciano: la
famiglia si trasferisce a Doha. Trump non c’entra, col caso Ahmed, però ogni
giorno sdogana il razzismo, la xenofobia, l’islamofobia. Invoca esami di
religione alla frontiera Usa per tener fuori i musulmani. La fuga di Ahmed ci
ricorda che quando vince il pregiudizio e diamo caccia ai diversi, alla fine
restiamo tutti un po’ più poveri.
Federico Rampini – Donna di Repubblica – 3 settembre 2016 -
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