Strano Che Il Giorno della morte di Gene Wilder sia
piovuto ad Amatrice. Non un presagio, più banalmente la macabra
rappresentazione della sua più celebre freddura. Quando il fido Igor dice al
dottor Frankenstein jr: “Potrebbe essere peggio”. E come, fa l’altro? “Potrebbe
piovere”. L’acqua che cade sulla morte, bagna le telecamere e sporca la diretta
ci riporta dritti dentro la verità. Fuori dal copione che recitavamo: gli
italiani in lutto. La pioggia rompe la fiction e come per Gabriele D’Annunzio
nel pineto, solo sotto l’acqua x’è la realtà: voci e forme. Gente che ha perso
tutto. Mentre all’asciutto, al riparo del catodo, c’è l’Italia che guarda. Con
la stessa ardente vampata con cui si ritrovò fanatica dei Giochi di Rio.
Inebetita davanti a migliaia di tuffi identici, improvvisamente esperta di tiro
al piattello, esaltata dalla scherma e dagli affondi del fioretto. Quella che
insegnò a Schettino il coraggio del capitano sulla nave, ma poi fotografava il
sarcofago al Giglio per farsi un selfie. Quella che spiega a Francesco cosa
avrebbe detto Gesù Cristo, se solo il papa facesse più attenzione. L’Italia che
s’attacca al tricolore sempe e solo quando sventola lontano da casa propria.
Più simile a Totò che al barone Pierre de Coubertin quando dice: l’importante è
partecipare. (..) A Rio randagi della festa, imbucati nella vittoria degli
altri, ad Amatrice randagi del dolore, imbucati ai funerali. Non lo facciamo
con cattiveria. Siamo fatti così. Ognuno di noi, piccolo sciacallo in buona
fede, scava tra le macerie e finisce per prendersi ciò che gli serve. Basta
guardare il clima politico. Improvvisamente cambiato come un vento che gira. La
noiosa retorica sulla Costituzione è riposta in freezer. Il premier Matteo
Renzi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella fra gli sfollati
promettono di ricostruire i paesi distrutti, quell’Italia di mezzo che non è
Nord e non è Sud, che non è ricca e non è povera, che si è accartocciata in una
notte d’agosto come cartapesta, ma per riuscirci davvero sanno bene che devono
ricostruire, al tempo stesso, la credibilità delle istituzioni, terremotate a
loro volta e con impellente bisogno di restauri. Di forma e di sostanza. Lo
declinano con modi diversi ognuno alla propria maniera: Mattarella mostrando al
Paese la presenza invisibile ma sostanziale di antico sapore
cattolico-democratico, rarefatta ma vitale come l’aria, simile alla Protezione
civile (i volontari, non la cabina di regia) che pietra dopo pietra fa un
lavoro imponente senza mostrare il volto dell’eroe; Renzi invece lo fa
respirando (dopo mesi) l’aria bagnata, rispolverando la fascia di sindaco,
guardando in faccia la gente comune e cambiando tono, immagine e
strategia(..).Una mutazione naturale? (..). Scossa trllutica, però anche scossa
politica per quel Paese che si parla addosso. Ma attenzione: mentre il Palazzo
muta forma e progetta la ricostruzione di quel borgo dove la pastasciutta è
planetaria, ma l’orizzonte di vita è ormai strettissimo, la gente di Amatrice
vive la metamorfosi più difficile. Da naufraghi soccorsi dal bastimento Italia
a soli, piccoli, indifesi sull’isola dei non famosi, come raccontano i ritratti
dal cratere di Federica Bianchi, (..). Il Rischio Che Corriamo? Il solito.
Mentre giochiamo a fare gli italiani, viene l’inverno. In tivù si cambia canale
(succederà presto) e il Paese degli indignati di professione progetterà il suo
autunno lontano da Amatrice. Tutto ciò che abbiamo visto, il tifo che abbiamo
fatto, le lacrime in cui ci siamo immedesimati finiranno. Per lasciare spazio alla pioggia. Che si poserà altrove. E
con lei il nostro sguardo.
Tommaso Cerno – Editoriale – www.lespresso.it @Tommasocerno – 4 settembre 2016
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