A Prima Vista diresti: il giorno e la notte, E però
in fondo, Renzi e D’Alema si assomigliano. Molto. Se non altro perché l’uno sta
cercando di fare esattamente ciò che l’altro avrebbe voluto, ma che non gli
hanno lasciato fare. Con la stessa determinazione con cui il secondo sta ora
cercando di fermare il primo. Proprio così. Dunque non capisci perché oggi il
Padre (politico) rinneghi il Figlio, fino a minacciare epocali scissioni. “Un
difetto ottico dovuto a malumore, a ragioni di risentimento personale”, azzarda
al “Foglio” l’amico Andrea Peruzy, ex amministratore e fund raiser di
Italiani-Europei, il think-tank di D’Alema. Chissà. Certo, diversi sono i lombi
e gli esordi: il papà di Massimo, Giuseppe, era stato partigiano gappista; il
papà di Matteo, Tiziano, ha esordito come consigliere comunale Dc a Rignano
sull’Arno. Massimo indossò la divisa di Pioniere del Pci e – lider minimo –
prese la parola dinanzi a Togliatti ( “Ma questo è un nano”, avrebbe esclamato il
Migliore, colpito dall’eloquio); Matteo
invece vestirà da scout. Poi se l’uno vinceva il concorso per entrare alla
Normale di Pisa, l’altro trionfava alla “Ruota della Fortuna”; e quando
D’Alema, unico comunista della storia, conquistava Palazzo Chigi, Renzi si
laureava con una tesi su La Pira. Di qua, di là. Invece…. Invece le
somiglianze politiche tra i due sono strabilianti. Ripassare per credere. Il
Rottamatore che ha fatto fuori i titolari della Ditta e sfrattato con un tweet
Enrico Letta certo non ignora la ferocia con la quale D’Alema tramò contro
Natta e Occhetto sulla via della segreteria del post Pci. Unica differenza, non
lo fece da solo, ma a nome di una generazione di quarantenni stanchi di
obbedire a “quelli che avevano trent’anni nel ‘56” (copyright Claudio
Petruccioli). Innovatore si dice l’uno, modernizzatore – del Paese, della
sinistra – si definiva l’altro. D’Alema esordì da leader del Pds con un attacco
a testa bassa alla Cgil di Cofferati, il sindacato “più chiuso e più sordo
all’esigenza di una riflessione critica”, ma fu presto costretto a rinculare:
eccolo poche settimane dopo sfilare assieme a Cofferati contro il governo Prodi
di cui era azionista di maggioranza. Cercò di rimediare da premier firmando una
lettera sulla riforma del mercato del lavoro assieme a Tony Blair, ma poco dopo
si dimise, e poi Berlusconi cinse le elezioni. Addio sogni riformisti. Renzi,
invece, ha cancellato l’articolo 18 e imposto il Jobs Act senza nemmeno
trattare con la Cgil ( “La gente è dalla nostra parte, non da quella dei
sindacati”). Altra stagione, stessa linea di marcia. (..)Ancora. A Palazzo
Chigi D’Alema si circondò di quattro fedelissimi dal cranio lucido, i Lothar:
Velardi, Rondolino, La Torre, Minniti; e Renzi decide tutto con il suo cerchio
magico: Boschi, Lotti, Sensi. Massimo si rifece il guardaroba affidandosi al
maestro della sartoria napoletana Antonio Panìco; Matteo ha scelto Ermanno
Scervino, stilista “à la page” con maison a Bagno a Ripoli, provincia di
Firenze. E se D’Alema inciampò sulla casa di un ente pubblico a equo canone,
Renzi godeva di un appartamento nel centro di Firenze pagato dal fido Marco
Carrai…Si potrebbe continuare. Per esempio con l’arroganza di cui D’Alema
accusa Renzi. Ma su questo, forse è meglio che si esprima il lettore, diciamo.
Bruno Manfellotto – Questa settimana www.lespresso.it - @bmanfellotto – 7 aprile
2016
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