Studio all’accademia di
Belle Arti di Torno dove mi sono persuasa che l’uomo ha necessariamente bisogno
delle immagini ogni qualvolta parla di vita interiore, la cui caratteristica è
di mostrarsi attraverso il linguaggio, attraverso l’uso di metafore che, come
scrive Hannah Arendt, “sono palesemente desunte da dati ed esperienze
corporei”. I concetti sono così trasferiti (metapherein,
trans-portati) alla giurisdizione dei sensi, al fine di rendere tangibili tali
idee che altrimenti rimarrebbero astratte. E’ come se la conoscenza effettiva
derivasse da questo segno, dall’immagine, che lascia una testimonianza
effettiva, concreta, del nostro essere al mondo. Ma all’origine di questo
bisogno che cosa c’è? Non c’è l’Io lacerato allo specchio? Per conoscere noi
stessi non ci guardiamo, forse, allo specchio o negli occhi degli altri? Non
veniamo a contatto “con noi” attraverso “l’immagine di noi”? E allora, noi
siamo profondamente legati all’immagine, la cui forza sostituisce la realtà stessa.
Cosa ne pensa? Maria Elena Marchetti marchetti.mariaelena@gmail.com
La sua lettera mi costringe a entrare
in un campo, la filosofia, da cui la maggior parte delle persone si tiene
lontana, incoraggiata anche dalla proposta, avanzata qualche mese fa, di
abolirla dagli insegnamenti liceali, come peraltro è già accaduto nella maggior
parte dei paesi europei, come se addestrarsi al pensiero e al senso critico
fosse un pericolo da cui è bene tenersi lontani. In realtà è alla filosofia che
l’Occidente deve il suo tratto costitutivo, a partire da Platone che ci ha
insegnato pensare servendoci di idee e concetti e non delle cose sensibili.
L’effetto fu che noi occidentali con il concetto di albero nominiamo tutti gli
alberi sulla terra, mentre la mentalità orientale, che non è il contrapposto
della mentalità occidentale ma la sua preistoria, è rimasta ancorata alle cose
sensibili, e fin quando non è a sua volta pervenuta all’astrazione concettuale,
non diceva “l’albero” nominando con una parola tutti gli alberi della terra per
diversi che fossero, ma “questo albero della vita e della morte”, “questo
albero della luce e delle tenebre”. Come fanno i bambini che, prima di arrivare
ai concetti, conoscono il mondo maneggiando le cose concrete e successivamente
le loro immagini. (..). Quindi è la filosofia ad averci allontanato dai corpi,
dalle sensazioni, dalle cose colte nella loro singolarità e concretezza. In un
certo senso sì. Ma non dalle immagini, anche se così ritiene la psicologia,
seconda la quale i filosofi sono incapaci di pensare per immagini come invece
vuole la nostra psiche, i cui percorsi, a partire dai sogni diurni e notturni,
seguono la via dell’immaginazione. Per convincersi delle sue idee, che non sono
così distanti dalle mie, le consiglio di leggere I segni dell’anima (Laterza)
del filosofo Carlo Sini, secondo il quale l’immagine non ha un’origine psichica
ma filosofica. Infatti, a differenza degli psicologi che considerano
l’immaginazione un arricchimento della realtà, i filosofi sono abituati a
pensare in assenza e, l’assenza dell’oggetto è il tratto peculiare
dell’immagine che lavora senza realtà e, così lavorando, la presenta in
assenza. Per questo è possibile dire che l’assenza è il luogo della parola. Noi
siamo al monto tra la presenza delle cose e la loro assenza, e non potremmo né
vivere, né pensare, né parlare se, in assenza delle cose, non potessimo
evocarle in immagine. Detto questo, aboliamo pure la filosofia dalle scuole,
così capiremo sempre meno il nostro modo di essere al mondo.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 30 gennaio 2016
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