Si può usare la parola “negro”? E
“nano”? O meglio, lo si può lasciare scritto nei titoli e nelle descrizioni dei
quadri esposti nei musei? Oppure si deve correggere con espressioni politicamente corrette? Il dibattito ferve
sui media occidentali da qualche settimana, da quando cioè il Rijksmuseum di
Amsterdam – che grazie alla sua collezione di Rembrandt e Vermeer è il più
importante del Paese con i suoi quasi 2,5 milioni di visitatori l’anno – ha
annunciato che appunto sta modificando i termini oggi ritenuti offensivi dalle
sue opere, tra cui anche “indiani” riferito ai nativi americani. “Noi olandesi
veniamo chiamati Kaas Kops”, “teste di formaggio”, e non ci piacerebbe trovarlo
scritto nella descrizione di un quadro”, ha dichiarato Martine Gosselink, a
capo di questo progetto. In questa polemica internazionale, il britannico Guardian ha ricordato che “pochissimi
sono gli artisti che hanno dato alle loro opere dei titoli, che invece sono di
solito poi attribuiti da storici e musei”, mentre lo spagnolo El Pais ha messo
in guardia dagli eccessi del politicamente corretto, citando anche il
“masochismo occidentale” teorizzato dal filosofo francese Pascal Bruckner in La tirannia della penitenza. Non è comunque un problema che riguarda tutti
i musei d’arte moderna. Dalla Pinacoteca di Brera, a Milano, ci spiegano per
esempio che per loro il dilemma non si pone: “La maggior parte dei nostri
dipinti è di soggetto sacro. Non abbiamo titoli “scorretti”. E che cosa ne
pensa il neodirettore degli Uffizi, il tedesco Eike Schmidt? “Laddove “esistono
titoli ormai storicizzati, per noi restano quelli”, ci spiega da Firenze: “Mi
viene in mente il famoso ritratto “double face” che abbiamo nella Sala del
Bronzino. E’ dedicato l Nano Morgante, personaggio noto della corte di Cosimo I
de’ Medici, considerato quasi di famiglia”. Conservare quelle espressioni può
essere a suo modo persino educativo, per Schmidt: “Proprio la volontà di
esporre le opere con i nomi storici, non abbelliti sotto il segno del politically correct, ricorda a tutti
l’inferiorità e la sofferenza di queste persone nei secoli passati, inducendoci
a una riflessione e a portare avanti la necessità dell’integrazione di ogni
individuo, con le proprie abilità e disabilità, nella società”.
Daniele Castellani Perelli – Cultura – Il Venerdì d
Repubblica – 19 febbraio 2016 -
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