La storia dello Statuto dei
lavoratori
Cosa
fu la legge che cinquant'anni fa per la prima volta in Italia portò «la
Costituzione in fabbrica»
Il 20 maggio
del 1970 – sono passati poco più di cinquant’anni esatti – il Parlamento
approvò la prima legge organica in cui una serie di tutele e di diritti
fondamentali garantiti dalla Costituzione venivano estesi anche all’interno
delle fabbriche. Come si disse all’epoca, con quel voto «la Costituzione
entrava nelle fabbriche». Il nome scelto per celebrare l’altrimenti anonima
legge 300/1970 fu all’altezza delle ambizioni dei suoi promotori: Statuto dei
Lavoratori.
Da allora i
datori di lavoro – i “padroni”, come li chiamavano allora politici altrimenti
moderati – non ebbero più diritto di perquisire gli operai e le operaie
all’uscita dalla fabbrica, di punirli per le loro idee politiche, di
licenziarli perché si erano sposati o aspettavano un bambino. Conquistato dopo
un decennio di lotte anche violente del movimento operaio, lo Statuto dei
Lavoratori rappresentava una delle più avanzate leggi di tutela del lavoro in
Europa.
Cinquant’anni
dopo i diritti garantiti dallo Statuto dei Lavoratori sono ancora in vigore, ma
in un mondo del lavoro completamente cambiato, sono sempre meno coloro che ne
godono appieno. I riders e i fattorini, divenuti indispensabili a molti durante
la quarantena, sono solo la parte più visibile di un sottobosco sempre più
vasto fatto di lavoro precario, stage, contratti temporanei e finte partite
IVA. Per milioni di lavoratori, che spesso si sono affacciati da poco sul
lavoro, lo Statuto dei Lavoratori non è che una parola astratta e altisonante.
Questo nuovo
mondo non è nato per caso. Dopo essere stato approvato praticamente
all’unanimità dalle forze politiche della Prima Repubblica, lo Statuto dei
lavoratori è stato indicato a lungo come una delle cause delle disfunzionalità
e della bassa produttività italiana. Le esigenze di una nuova economia più
dinamica e flessibile hanno eroso le vecchie garanzie, segnando un solco
generazionale. Per alcuni, le rigidità dello Statuto rappresentano ancora la
causa delle disfunzionalità del sistema del lavoro italiano ed è ancora valido
lo slogan degli anni Novanta «rinunciare ad alcuni diritti, per darne di più ad
altri». Ma a cinquant’anni dalla sua approvazione, dopo crisi e recessioni,
sono in pochi a ritenere possibile o desiderabile tornare al mondo di prima.
L’Autunno
caldo
Alla fine degli anni Sessanta nelle grandi fabbriche del Nord Italia c’era un
clima agitato, se non rabbioso. Nei vent’anni precedenti milioni di lavoratori
si erano trasferiti nelle grandi città dalle campagne e dal Sud. Spesso avevano
goduto per la prima volta di uno stipendio regolare e si erano potuti
permettere lussi impensabili per i loro genitori: una macchina, un frigorifero,
una vacanza al mare. Ma allo stesso tempo conobbero per la prima volta ritmi di
lavoro intensi, la disciplina e le condizioni di lavoro insalubri delle grandi
fabbriche fordiste. Inoltre, non sempre il lavoro duro era stato ripagato. Gli
alloggi degli operai erano spesso di qualità misera.
Nelle
fabbriche, soprattutto quelle più grandi, la disciplina era militare. I
capireparto, come quelli della FIAT, vestiti con riconoscibili tute nere,
avevano un potere quasi assoluto sui dipendenti. Si poteva essere licenziati
per insubordinazione, per le proprie opinioni politiche o per essersi iscritti
al sindacato sbagliato. I lavoratori venivano sistematicamente puniti per le
loro infrazioni, per esempio venendo spostati nelle aree delle fabbriche dove
il lavoro era più duro.
Una situazione
di particolare discriminazione era subita dalle donne lavoratrici, che solo di
recente ha iniziato a essere studiata adeguatamente. All’epoca era normale
venire licenziate quando ci si sposava o quando si rimaneva incinte, così come
che al momento dell’assunzione venissero fatte richieste particolari riguardo
allo stato civile. In un recente
libro sul tema viene ricordata una lettera spedita dall’azienda a
un’operaia che aveva chiesto un congedo matrimoniale dopo aver sposato un
collega. «Siamo lieti di comunicarle che la direzione ha concesso il permesso
per congedo matrimoniale di quindici giorni. Vi rendiamo noto che, dopo il suo
matrimonio, la Società dovrà trattenere in servizio solo uno dei due
dipendenti, pertanto la preghiamo di regolarsi in conformità». All’epoca si
diceva: «operaia innamorata, mezza licenziata».
La
Costituzione italiana, scritta con il forte contributo dei partiti comunisti,
socialisti e della sinistra della Democrazia Cristiana, prevedeva una forte
tutela dei lavoratori e dei loro diretti superiori, messi a fondamento della
Repubblica addirittura nel primo articolo della Carta. Ma in pratica le leggi,
in buona parte ereditate dall’epoca fascista, e l’atteggiamento della politica
e della polizia, furono quasi sempre più vicine alla parte più dura
dell’imprenditoria, che alla tutela del lavoro. Gli scioperi e le occupazioni
delle fabbriche erano violenti e spesso incontravano la risposta armata della
polizia, che sparava sui manifestanti (accadde a Modena e a Reggio Emilia, per
esempio).
Nel corso
degli anni Sessanta la tensione nelle fabbriche iniziò a crescere. Le nuove
generazioni di operai, giovani, provenienti dal Sud, spesso alloggiati in
pessime condizioni e accolti con freddezza e sospetto dalla popolazione del
Nord – e a volte dai loro stessi colleghi più anziani – si rivelarono
imprevedibili e difficili da controllare. Le loro manifestazioni di protesta
erano spesso spontanee e violente, e i sindacati ufficiali faticavano a
contenerli e imbrigliarli nei percorsi formali con cui, fino a quel momento,
avevano trattato con le associazioni di imprenditori.
Nella seconda
metà del decennio si moltiplicarono i blocchi della produzione, gli assalti ai
capireparto, gli scioperi “a gatto selvaggio”, in cui varie parti della catena
di montaggio scioperavano in modo imprevedibile e distanziata l’una dall’altra,
così da massimizzare i danni alla produzione. Nel corso di quello che passò
alla storia come “l’autunno caldo” del 1969, le proteste di operai e lavoratori
si saldarono con quelle del movimento studentesco. Quell’anno oltre 200 milioni
di ore di lavoro vennero perse in scioperi e altre proteste: un record mai più
raggiunto.
Sotto la
pressione delle richieste operaie, i governi di centrosinistra – con al centro
la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista – cominciarono a introdurre i
primi pezzi di legislazione che sarebbero poi andati a comporre lo Statuto dei
Lavoratori, ma mancava ancora una vera e propria legge organica che traducesse
nella pratica i dettami della Costituzione.
Lo Statuto dei
Lavoratori nacque e venne materialmente scritto in quegli anni, all’interno
dell’area politica e culturale del Partito Socialista: il suo principale
autore, il sindacalista e politico Giacomo Brodolini, morì nell’estate del
1969, pochi mesi prima di vedere compiuta la sua opera. A portarla avanti e a
difenderlo, con toni spesso molto accesi, fu la sinistra della Democrazia
Cristiana, sostenuta dai suoi alleati repubblicani e liberali.
Come ha ricordato Marco
Revelli sulla Stampa,
nel giorno del dibattito in aula il primo intervento fu quello del deputato
democristiano Natale Pisicchio, che denunciò i «sistemi di repressione, di
mortificazione della dignità umana e di intimidazione» messi in atto dai datori
di lavoro. Il liberale Emilio Pucci attaccò la concezione «autoritaria» che
avevano alcuni imprenditori dei rapporti con i lavoratori. Quando arrivò il suo
turno il ministro del Lavoro democristiano, Carlo Donat-Cattin, ricordò
l’importanza di attuare le norme della Costituzione sul lavoro e attaccò anche
lui «taluni imprenditori che risentono di una mentalità sorpassata legata ad
una visione superata della funzione imprenditoriale». Lo Statuto venne
approvato il 20 maggio con 217 voti a favore e solo 10 contrari. Il Partito
Comunista mise in atto un’astensione “benevola” e ritirò tutti i suoi
emendamenti.
Nella pratica
il documento appena approvato si componeva di sei capitoli, o titoli, che riguardavano
tutte le attività connesse al lavoro in fabbrica. Lo Statuto proteggeva la
libertà di opinione dei lavoratori, impediva di svolgere indagini in proposito
ai datori di lavoro e limitava fortemente i controlli e le intrusioni nella
privacy dei lavoratori (fino a quel momento, le perquisizioni corporali in
uscita dalla fabbrica erano episodi comuni). Veniva garantito il diritto alla
salute, quello di riunirsi in sindacati e veniva proibito ai datori di lavoro
di creare o sovvenzionare sindacati rivali. Le sanzioni disciplinari venivano
limitate e, con il famoso articolo 18, veniva stabilito che soltanto gravi
ragioni potevano portare al licenziamento del lavoratore.
L’approvazione
dello Statuto dei Lavoratori venne accolta da molti come un grande successo.
Portò un miglioramento sensibile delle loro condizioni di vita e, unito alla
forza delle rivendicazioni sindacali, contribuì alla crescita record dei salari
dei primi anni Settanta. Ma all’epoca, e negli anni successivi, non mancarono
anche le critiche. Il Partito Comunista lo accusò di essere insufficiente, ma
fu a sua volta accusato di opporsi soltanto per ragioni di tattiche elettorali.
Negli anni, altri hanno criticato il forte potere dato dalla legge ai tre
grandi sindacati confederali, CGIL, CISL e UIL, a scapito delle formazioni più
piccole e della possibilità dei lavoratori di autorganizzarsi.
Altri ancora
hanno accusato lo Statuto di avere in sé i germi che ne hanno portato, nei
decenni successivi, all’aggiramento. Molte delle sue disposizioni, per esempio,
non si applicavano alle imprese sotto i 15 dipendenti, le piccole imprese che
compongono gran parte del panorama industriale italiano. Lo Statuto inoltre
lasciava aperta la porta all’introduzione di forme di lavoro autonomo o
comunque non strettamente subordinato, il precariato quasi privo di diritti che
ha conosciuto un’esplosione a partire dagli anni Duemila.
In anni
recenti, poi, non sono mancate le critiche in senso opposto. Per esempio aver
fornito ai lavoratori troppi diritti, che irrigidiscono il mercato del lavoro e
ostacolano la libertà di impresa. Nel corso del primo decennio del nuovo
millennio e nei primi anni successivi alla crisi economica, l’articolo 18 in
particolare è divenuto un simbolo di questa percezione. Dopo vari tentativi di
abolirlo, alla fine il governo di centrosinistra guidato da Matteo Renzi riuscì
a svuotarne parte del significato, anche se soltanto per gli assunti da quel
momento in avanti (da allora, però, la magistratura del lavoro ne ha di fatto
ripristinato diversi effetti).
A mezzo secolo
della sua approvazione, quasi tutte le analisi pubblicate in occasione del suo
anniversario si sono concentrate sulla sua “incompletezza”. Le sue tutele sono
ancora in vigore per la maggioranza dei lavoratori italiani, ma non sono invece
mai state conosciute da una fetta sempre più ampia di lavoratori autonomi,
parasubordinati e precari. Nel frattempo i salari reali hanno smesso di
crescere oramai da trent’anni. Sono passati cinquant’anni dall’approvazione
dello Statuto ma oggi, come all’epoca, si è tornati da tempo a chiedersi come
tradurre in pratica quelle disposizioni costituzionali che, di nuovo, appaiono
senza attuazione.
https://www.ilpost.it/2020/05/24/statuto-dei-lavoratori/
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