La notizia della morte di Albino Luciani, papa
Giovanni Paolo I, piomba improvvisamente nelle case degli italiani la
mattina del 29 settembre 1978. Le prime reazioni sono di sconcerto,
incredulità, sconforto. Pare assurdo che il pontefice sia morto. Ma è tutto
drammaticamente vero. Sono trascorsi solo trentatré giorni dall’elezione di
colui che era già passato alla storia come il papa del sorriso.
IL CONCLAVE E
L’ELEZIONE DI PAPA LUCIANI
Roma, venerdì 25 agosto 1978. Al canto del Veni Creator
Spiritus, i cardinali elettori entrano nella Sistina per raggiungere
il seggio assegnato. Poco dopo arriva il maestro delle cerimonie, pronuncia l’extra
omnes, il tutti fuori; il sacro rito del conclave è
cominciato, il primo dopo il Concilio Vaticano II. I centoundici cardinali
elettori (per la prima volta viene adottata la regola conciliare che esclude
dal diritto al voto i cardinali ottantenni, quindici in tutto) dovranno eleggere
il successore di Paolo VI, il 263° vescovo di Roma. Il caldo è terribile,
in seguito molti dei partecipanti parleranno di condizioni inaccettabili, tanto
che il cardinale Suenens definirà la sua piccola stanza una sorta di forno in
cui non si respira. Ma più delle alte temperature e dei pochi agi – solo con
Giovanni Paolo II i cardinali avranno stanze appropriate nei giorni del
conclave – a preoccupare è la responsabilità che grava su tutti di dare alla Chiesa
di Roma un nuovo pontefice.
Il collegio cardinalizio che di lì a poco inizierà a votare non è stato mai
così multietnico. Trenta sono, infatti, i paesi
rappresentati. Gli europei rimangono il gruppo ancora più nutrito con
cinquantasei cardinali, di cui 28 italiani. Seguono i ventuno porporati
dell’America latina, i dodici africani, i dieci nord americani e i nove
asiatici. Completano il gruppo dei cardinali elettori i tre rappresentanti
dell’Australia e del Pacifico. In virtù di una geografia del conclave così
variegata la sensazione è che possa essere un conclave non breve e, invece,
sarà brevissimo.
Nel corso delle quattordici congregazioni generali (le riunioni informali
che precedono il conclave), presiedute dal decano il cardinal Confalonieri fra
il 7 e il 24 agosto, si delineano gli identikit dei candidati, dei possibili
papabili. Le divisioni fra i porporati, come sempre ci sono ma stavolta
appaiono meno evidenti, più sfumate. Effetto anche dell’impronta montiniana sul
sacro collegio. Soltanto dodici fra i centoundici cardinali elettori (in realtà
dovrebbero essere centoquattordici, ma sono assenti per motivi di salute il
cardinale di Boston, quello di Bombay e il polacco Filipiak) sono stati
nominati dai predecessori di Paolo VI.
Molte facce nuove, dunque, come osserva il primate della Polonia Wyszynski a uno spaesato e
giovane Karol Wojtila, come tantissimi, al suo primo conclave. Come nel 1963, a
contrapporsi sono da una parte i tradizionalisti e dall’altra
i cosiddetti riformatori ma, rispetto a quindici anni prima,
con il peso specifico di un Concilio che ha profondamente mutato non solo la
Chiesa ma anche la figura stessa del papa.
Sono in molti a sperare che la nuova guida dei cattolici sia, come indicato
dall’influente teologo Padre Congar, un pastore ecumenico, un terzomondista,
capace di stare dalla parte degli ultimi, dei più poveri e che si adoperi
realmente per la riconciliazione di tutti i cristiani. Ma non sono tutti
su questa linea. Il cosiddetto partito romano, quella legato alla Curia,
spinge, invece, per un pontefice restauratore, che intervenga sui “disastri”
conciliari e, in questo caso, il nome non può che essere quello di Giuseppe
Siri. Il cardinale di Genova è una personalità autorevole, un convinto
oppositore del recente Concilio, uno che non ha mai nascosto le sue idee.
Non a caso, poco prima di entrare nella Sistina, ha dichiarato apertis
verbis: “Credo si debba metter ordine nel campo dottrinale. La minaccia più
grave che incombe sulla Chiesa oggi è quella che troppi parlino e non parlino
bene”.
Una candidatura forte, lo era stata anche nel conclave precedente, ma che
non convince del tutto. Se, da una parte, piace ai tradizionalisti dall’altra
spaventa i moderati, preoccupati che un simile profilo, una volta eletto, possa
spaccare definitivamente il già precario equilibro del mondo cattolico. In tale
ottica sembrano più congeniali i nomi di Ugo Poletti e ancor
di più quello del prefetto della Congregazione dei vescovi, Sebastiano
Baggio. Tuttavia, nel momento in cui le porte della Sistina vengono
sbarrate, la sensazione è che la scelta possa essere fra Giuseppe Siri e Albino
Luciani. Il nome del patriarca di Venezia emerge già nel
corso delle prime congregazioni ed è uno dei papabili anche per alcuni organi
di stampa, come il britannico “Time” che lo indica come il favorito.
A proporre ufficialmente il nome di Luciani è il cardinale
di Firenze Giovanni Benelli. Per questi potrebbe essere un profilo ideale per
unire le diverse anime presenti nel conclave. Come affermerà pochi giorni dopo
lo storico Gabriele De Rosa in un’intervista al quotidiano “Il Giorno”, la
scelta di Luciani “è arrivata come frutto di una più lontana e attenta
riflessione, forse già prima della scomparsa di Paolo VI”. Si tratta di un nome
che complessivamente convince, un buon compromesso fra innovazione e
tradizione. Luciani piace alla cosiddetta Chiesa di periferia ma anche a
quell’anima pastorale piuttosto influente, specie dopo il Concilio e, alla
fine, non dispiace del tutto neppure ai conservatori, consci che il cardinale
Siri non potrà mai ricevere i voti necessari per essere eletto.
Già dal secondo scrutinio, dopo che nel primo i voti sono stati distribuiti
su più cardinali, la candidatura di Luciani si fa seria, tanto da
ricevere 53 voti, più del doppio di quelli avuti da Siri, fermo a 24. Questa
tendenza si rafforza nel corso del terzo scrutinio, quando Luciani ottiene ben
70 voti, sottraendoli anche al “rivale” Siri che ne riceve soltanto 12. Ormai
la sua elezione appare certa e arriverà nella successiva votazione, quando
saranno ben 101 su 111 le schede a favore di Luciani che, al
momento della proclamazione, rimane impietrito, addirittura angosciato. Alcuni
cardinali diranno che nell’immediato l’ex patriarca pensò addirittura di non
accettare, sentendosi schiacciato da quell’enorme responsabilità.
Alle 18.24 dal comignolo della Sistina arriva l’attesa fumata bianca che,
però, forse per colpa del cardinale fuochista appare grigiasta, tanto che in
piazza molti pensano che il papa non sia stato ancora eletto. A fugare ogni
dubbio penserà il cardinal Pericle Felici con il tradizionale habemus
papam. Poco dopo dalla loggia di San Pietro compare l’esile figura di Albino
Luciani, papa Giovanni Paolo I. Vorrebbe fare un piccolo
discorso ai fedeli ma il cerimoniere gli dice che non è possibile. Allora si
limita a impartire la benedizione, senza quella gestualità studiata che tanto
aveva caratterizzato Pio XII, ma in modo semplice, come farebbe un normale
parroco la domenica alla fine della messa. D’altra parte, Albino Luciani in
tutta la sua vita è sempre stato innanzitutto un sacerdote. https://www.passaggilenti.com/papa-luciani-morte-giovanni-paolo-i
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