La forza comica di Troisi si trovava
soprattutto nella visione
sarcastica e romanzata del quotidiano, dove ogni
evento diventava spunto per un umorismo spontaneo, immediato, paradossale, mai
volgare, aggressivo o urlato. Non aveva bisogno di forzare una situazione o di
una parolaccia per strappare la risata del pubblico, ma si basava sulla mimica
inconfondibile e un talento quasi istintivo per i tempi della battuta. Dal
teatro-cabaret al cinema, dalla radio alla tv, la comicità italiana di oggi si
nutre in molti casi di urla sguaiate,
volgarità, bassezze, qualunquismi e stereotipi. Anche per questo è sbagliato
considerare Massimo Troisi uno dei maestri della comicità italiana. L’attore
rappresenta più un unicum privo di
eredi artistici. Venticinque anni dopo la sua morte non esiste una “scuola
Troisi” e il suo ricordo sfocia nella citazione o nei peggiori dei casi
nell’emulazione, mentre non viene scalfito quell’alone di irripetibilità che da
sempre lo ha accompagnato in una vita segnata da una malformazione cardiaca scoperta all’età
di 14 anni.
Per capire l’unicità di Massimo
Troisi possiamo partire dal linguaggio e prendere in prestito quanto detto da
Roberto Benigni, con cui ha diretto nel 1984 il film Non
ci resta che piangere. Nella poesia dedicata a
Troisi dopo la sua morte, Benigni scrive: “Morto Troisi muore la segreta arte
di quella dolce tarantella, ciò che Moravia disse del Poeta io lo ridico per un
Pulcinella”. Parafrasando, l’arte di Troisi è Troisi, al punto che gli è stato
riconosciuto lo status di “maschera” che prima era stato di Totò. Quando Ettore
Scola nel 1990 gli affidò il ruolo di Pulcinella ne Il viaggio di
Capitan Fracassa, sembrò una naturale
sovrapposizione.
Il concetto di maschera è ancor più
evidente nei film di cui Troisi è stato regista o co-regista. I protagonisti
sono una proiezione della sua personalità in diversi contesti: impacciati e
timidi, vivono una condizione di esuli più che di emarginati, trovando la
risata nell’incomprensione, nella
parola smangiucchiata, nei gesti abbozzati del corpo.
Lo si vede con Gaetano in Ricomincio da tre,
il soggetto più autobiografico nella carriera di Troisi, ma anche con Mario
Ruoppolo ne Il Postino (co-diretto
con Michael Radford), quando l’artista di San Giorgio a Cremano ha mostrato la
sua indole più nostalgica, matura e intima, che gli valse la candidatura postuma per
l’Oscar come miglior attore protagonista nel 1996.
Massimo Troisi non era solo
divertente, ma tagliente. La sua carriera è stata una costante operazione di
decostruzione della società, usando Napoli come suo luogo archetipico. Troisi
ha offerto un’immagine della sua città ribaltando i luoghi comuni. Per
riuscirci ha seguito due percorsi: nel primo ha rappresentato Napoli con lo
sguardo esterno, mentre nel secondo l’ha raccontata come può fare solo uno dei
suoi abitanti. Dagli inizi in calzamaglia con I
Saraceni, poi diventati La Smorfia insieme
a Enzo Decaro e Lello Arena, dai piccoli teatri al passaggio in tv nelle
trasmissioni Non Stop e Luna Park, fino al clamoroso successo da
“solista” al cinema, Massimo Troisi ha tentato di spezzare tanto la visione
conservatrice che hanno alcuni dei suoi abitanti su Napoli, quanto i pregiudizi
del resto degli italiani.
Quando nel 1982 lo sceneggiatore
Lorenzo Magni lo ha ospitato nel programma Movie
Movie, Massimo Troisi ha motivato il suo
stile con una gag beffarda: “È semplice perché sono napoletano. È obbligatorio.
Il napoletano sa cantare perché è napoletano; sa recitare perché è napoletano.
Quindi sì è bravo, ma che ha fatto? È napoletano”. Sul palcoscenico, intanto,
scardina le tradizioni. La lunga e ridondante sceneggiata napoletana diventa un
“mini atto unico” in cui Enzo Decaro, su una sedia, narra le vicende
del vicolo Scassacocchi “Dove la gente era
intenta alle normali attività quali mangiare la pizza e suonare il mandolino”.
Lì, il guappo di quartiere Don Gennarino Parsifal, interpretato da Lello Arena,
piange perché è nato “fetente” e ha il compito di fare stragi. Massimo Troisi,
che interpreta sia l’aspirante guappo Ciro sia sua madre uccisa da Gennarino,
per evitare di innescare un ciclo di malvagità seguendo l’etica della vendetta,
perdona al boss l’uccisione e abbandona le proprie aspirazioni di comando.
Nella “sceneggiata” emerge anche la
figura di Dio e il rapporto con la religione, tematica molto cara alla cultura
napoletana e più volte affrontata e dissacrata da Massimo Troisi. Come ha fatto
nell’atto della Natività, noto
per la battuta “Annunciazione! Annunciazione!” di Lello Arena nei panni di un
arcangelo Gabriele non vedente; o nella gag in cui il trio
invoca la grazia di san Gennaro, chiedendo al patrono di Napoli di far uscire i
numeri vincenti del Lotto; o ancora in Ricomincio
da tre quando Gaetano prende le parti di Giuda compatendolo
per il suo essere nato povero.
Massimo Troisi ha portato il concetto
di napoletanità fuori dai confini della città per inserirlo nel dialogo
pubblico e politico, oltre che artistico. In una puntata di Blitz,
programma condotto da Gianni Minà tra il 1981 e il 1983, l’attore contestò
l’etichetta di “nuovo napoletano” e affermò la volontà di voler offrire
un’immagine differente della città senza rinnegarne la tradizione. Negli anni
Ottanta diventò il simbolo di un movimento artistico che oltrepassava i confini
regionali (come oggi sta varcando quelli nazionali) e di cui fece parte
soprattutto l’amico Pino Daniele, che produsse diverse colonne sonore dei suoi
film.
Massimo Troisi superò i confini
regionali anche perché seppe dare una voce carica di sarcasmo agli esuli,
estranei alle convenzioni sociali, insicuri e non tutelati dalle istituzione.
Nel farlo, ha mostrato una sensibilità maschile diversa, lontana dai canoni dell’uomo
virile e infallibile. Con peculiare ironia ha affrontato tematiche quotidiane e
universali come il lavoro, l’amicizia, la morte, la malattia, la solitudine, la
religione, l’amore e il matrimonio. In Pensavo
fosse amore… invece era un calesse, Tommaso riconquista Cecilia (Francesca
Neri), ma non si presenta all’altare: i due si incontrano in un bar il giorno
stesso, dove arrivano alla conclusione che il matrimonio non sia adatto a un
uomo e una donna e si accordano per vedersi la sera come se nulla fosse. Già in
precedenza, Tommaso, in un crescendo di paradossi e frasi smorzate, aveva
affermato: “Uno dice viviamo insieme quando le cose non vanno, infatti quando
peggiorano dice perché non ci sposiamo. Se proprio incominciate che non ce la
fate più, facciamo un figlio, così quando alla fine vi odiate ma siete vecchi
dice: ché ci lasciamo adesso che siamo vecchi?”.
La sua sensibilità umana e sullo
schermo è sempre stata compensata da un rapporto con i media sfacciato. Si
esprimeva con naturalezza in un napoletano strascicato, alle premiazioni
derideva il valore dei trofei, durante le interviste smascherava i meccanismi
della tv, riprendendo con toni diversi gli stessi concetti già espressi da Pier
Paolo Pasolini (suo modello ispiratore che si divertiva a imitare). Al Festival
di Sanremo del 1981, per esempio, si è rifiutato all’ultimo momento di
partecipare con un suo monologo per la censura imposta della Rai, affermando: “Mi hanno
detto di fare tutto meno che parlare di religione, politica, terrorismo,
terremoto perché sai, il Paese sta in una situazione un po’ così e mo’ sto
indeciso tra una poesia di Giovanni Pascoli o Carducci”. Più volte ha tirato
stoccate anche alla classe dirigente del Paese, come nello sketch sul Terremoto
del Belice all’interno dell’auto-mockumentary Morto
Troisi Viva Troisi del 1982.
Di quel tipo di comicità, oggi siamo
del tutto orfani. Alle pellicole di Checco Zalone e Antonio Albanese, si
affiancano quelle più politicamente corrette di Alessandro Siani. Al netto di
una stand-up
comedy che lentamente migliora, il mainstream
televisivo è occupato ancora da programmi come Made
in Sud e Colorado Café, lontane
dall’idea di comicità e satira da intendere come strumento di riflessione o
crescita culturale. Quella che Massimo Troisi riuscì a far emergere anche nei
panni di Mario Ruoppolo, un postino che grazie all’incontro con Pablo Neruda
(Philippe Noiret) scopre la poesia, trasformando l’amore in un’arma
sociale di resistenza e autodeterminazione. Nella
battuta “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”, risposta
impacciata di un umile postino al grande poeta, si trova tutta l’essenza della
comicità gentile ma sempre tagliente di Massimo Troisi.
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