La
storia delle prime donne italiane che, settant'anni fa, poterono votare
“Le
donne del ’46” è un’espressione con cui ci si riferisce comunemente alle
prime donne italiane che nel 1946 poterono andare a votare: fino ad allora in
Italia il diritto di voto era limitato agli uomini. Il suffragio
femminile, e la storia delle prime donne che in Italia poterono esercitare il
diritto al voto, è oggetto di uno dei temi della maturità del
2016, che gli studenti italiani stanno
affrontando oggi.
In Italia le donne furono considerate
cittadine al pari degli uomini solo alla fine della Seconda guerra mondiale, il
10 marzo del 1946. La loro prima
occasione di voto non fu il referendum del 2 giugno
1946 per scegliere tra monarchia e repubblica, come pensano in molti,
bensì le amministrative di qualche mese prima, quando le donne risposero
in massa e l’affluenza superò l’89 per cento. Circa 2 mila candidate
vennero anche elette nei consigli comunali, la maggioranza nelle liste di
sinistra. La stessa partecipazione ci fu per il referendum del 2 giugno. Le
donne elette alla Costituente furono 21 su 226 candidate, pari al 3,7 per
cento: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito Comunista, 2 del Partito
Socialista e una dell’Uomo Qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte
della “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea per scrivere la nuova
proposta di Costituzione. Il primo paese al mondo a decidere il suffragio
femminile è stato la Nuova Zelanda nel 1893, seguita dall’Australia, i paesi
scandinavi, la Russia (con la Rivoluzione d’Ottobre), la Gran Bretagna e la
Germania dopo la Prima guerra mondiale e gli Stati Uniti
nel 1920.
La
storia del diritto di voto femminile in Italia
Il modo in cui in Italia si arrivò al
suffragio universale è stato raccontato da Giulia Siviero sul suo blog
sul Post.
La prima via italiana al riconoscimento di
un suffragio davvero universale fu quella giudiziaria. Il 17 marzo del 1861, la
carta fondamentale della nuova Italia unita divenne lo Statuto Albertino che
all’articolo 24 diceva:
«Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o
grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili
e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le
eccezioni determinate dalle Leggi».
Una di queste eccezioni
riguardava le donne, anche se non in modo esplicito. La riforma elettorale del
1882 concesse il diritto di voto a una parte consistente del movimento operaio
portando il corpo elettorale dal 2,2 per cento delle popolazione a circa il 7
per cento, ma continuò a trascurare le donne. Così la successiva legge del
1895. Nel frattempo, nel 1877, Anna Maria Mozzoni, milanese, femminista e
socialista, rifacendosi alle esperienze inglesi, francesi e statunitensi
presentò una petizione al governo «per il voto politico alle donne», la prima
di una lunga serie ad essere bocciata.
Nel 1881 Anna Maria Mozzoni e
Paolina Schiff fondarono a Milano la “Lega promotrice degli interessi
femminili”, nel 1903 diverse associazioni femminili si unirono nel Consiglio
nazionale delle donne italiane affiliato all’International Council of Women e
nel 1905 si formarono del comitati pro-suffragio femminile che promossero
l’iscrizione nelle liste elettorali di donne che avessero i requisiti
prescritti dalla legge. Il 26 febbraio del 1906 Maria Montessori sul
giornale La vita scrisse
un articolo in cui ribadiva l’invito specificando che la legge non poneva alcun
esplicito divieto. Quello stesso anno le Corti di appello di sei città
(Firenze, Palermo, Venezia, Cagliari, Brescia e Napoli) pronunciarono
altrettante sentenze per bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico
alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali avevano accolto.
Il 4 agosto del 1906 la Corte
di appello di Firenze disse ad esempio che un’interpretazione estensiva
dell’articolo 24 dello Statuto avrebbe portato a concludere che «le donne non
sono soltanto elettrici ma anche eleggibili». E dunque:
«Potrebbe avvenire che una
maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro
il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle
buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona,
e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di
donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno
immaginarsi».
Clamorosamente, la Corte di
appello di Ancona presieduta da Ludovico Mortara fu l’unica ad accogliere la
richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali. Era stata
presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano e poiché non
aveva precedenti ne parlarono tutti, giuristi e giornali. Al terzo e definitivo
grado di giudizio la sentenza venne però rovesciata: non in base a quello che
l’articolo 24 diceva, ma in base a quello che non diceva. In base, cioè, a una
radicata consuetudine.
Fallita la via giudiziaria si
tentò nuovamente quella della riforma legislativa: nel 1906 Anna Maria Mozzoni
e altre 25 donne presentarono una nuova petizione. Il dibattito si svolse alla
Camera nel febbraio del 1907 ma si concluse ancora una volta con un rifiuto.
Il 23 aprile del 1908, a Roma
ci fu il primo Congresso nazionale delle donne italiane. La presidentessa
Gabriella Rasponi Spalletti cominciò così: «L’avvenire è per il trionfo delle
idee non dei partiti. Tutti i pregiudizi a riguardo delle donne cadranno se il
Congresso saprà provare che è possibile un lavoro comune anche militando in
campi diversi». Il Congresso durò diversi giorni e fu il tentativo di tradurre
le richieste avanzate dal femminismo in precisi progetti di riforma da
sottoporre al governo e al parlamento. Il diritto di voto fu il tema dominante
e più discusso, ma si affrontarono le questioni del diritto all’istruzione e
del diritto di famiglia; si parlò del divorzio, del diritto alla ricerca della
paternità delle ragazze madri e del trattamento ingiurioso dei tribunali nei
confronti delle donne vittime di violenza sessuale; si propose di introdurre
nelle scuole l’educazione sessuale e di abrogare il matrimonio riparatore in
caso di stupro.
L’unità si ruppe su un tema estraneo ai
contenuti specifici del Congresso: la questione dell’istruzione religiosa nelle
scuole pubbliche. Negli accordi precedenti agli incontri venne deciso che quel
tema non doveva essere discusso, ma durante i lavori le donne furono indotte da
pressioni esterne a prendere una posizione: la questione fu posta ai voti e
quel giorno la sala era affollatissima di uomini che chiesero di votare dicendo
che avevano pagato 10 lire per la tessera e che dunque ne avevano diritto: «Noi
donne paghiamo le tasse, non per questo voi uomini ci concedete il voto» disse
loro Maria Montessori dalla tribuna. Ma gli uomini votarono, prevalse il
rifiuto dell’istruzione religiosa e su questo cadde l’unità delle donne. Le
molte forze che il Congresso era riuscito a riunire si dispersero.
Nel 1912 venne introdotto il
suffragio universale maschile e per la prima volta fu applicato nelle elezioni
politiche del 1913. La guerra interruppe però la lotta delle donne. Il 9 maggio
del 1923 Mussolini, che era al governo da un anno, parlò del suffragio
femminile e promise alle donne il voto amministrativo. In quello stesso
discorso rassicurò gli uomini dicendo:
«Io penso che la concessione
del voto alle donne in un primo tempo nelle elezioni amministrative in un
secondo tempo nelle elezioni politiche non avrà conseguenze catastrofiche come
opinano alcuni misoneisti, ma avrà con tutta probabilità conseguenze benefiche
perché la donna porterà nell’esercizio di questi vivaci diritti le sue qualità
fondamentali di misura, equilibrio e saggezza».
Nel 1925 entrò in vigore una
legge che concesse ad alcune italiane la possibilità di eleggere gli
amministratori locali. Tre mesi dopo, una riforma rimpiazzò i sindaci con i
podestà e cancellò il voto amministrativo in generale. Le madri prolifiche
dello stato fascista furono escluse dalla pubblica amministrazione e
scoraggiate dall’istruzione superiore, venne proibita la vendita di
contraccettivi e vennero stabiliti dei premi per le famiglie numerose. Molte
femministe e molte delle militanti del Congresso del 1923 scapparono
all’estero. Poi la guerra, di nuovo. E un nuovo attivismo, non appena fu
costituito il Governo di Liberazione Nazionale. La prima richiesta per il
suffragio femminile fu della Commissione per il voto alle donne dell’UDI, l’Unione
donne italiane nata per iniziativa di alcune esponenti del movimento
antifascista: fu sostenuta dalle rappresentanze dei centri femminili dei vari
partiti e dal Comitato nazionale pro-voto nel quale confluirono le principali
organizzazioni.
Il 30 gennaio del 1945 con
l’Europa ancora in guerra e il nord Italia sotto l’occupazione tedesca, durante
una riunione del Consiglio dei ministri si discusse del suffragio femminile che
venne sbrigativamente approvato come qualcosa di ovvio o, a quel punto, di inevitabile.
Il decreto fu emanato il giorno dopo: potevano votare le donne con più di 21
anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei
locali autorizzati». Nel decreto venne però dimenticato un particolare non da
poco: l’eleggibilità delle donne che venne stabilita con un decreto
successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946. Sui giornali se ne parlò
pochissimo con l’eccezione dell’Unità che
dedicò alla notizia un editoriale piuttosto ambiguo:
«Questo avvenimento è una
grande vittoria della democrazia, giacché una forza politica nuova viene
immessa nella vita nazionale (…) Si tratta di una scelta validissima di nuovi
dirigenti, i quali, particolarmente per quanto concerne i problemi della vita
cittadina, della vita locale, hanno l’enorme vantaggio di conoscere e sentire
più direttamente i bisogni più immediati dei singoli e delle famiglie. Una
ventata di sano buon senso entrerà sicuramente nella vita politica, e nella
vita amministrativa entrerà con le donne un maggior spirito di concretezza (…)
Noi comunisti siamo stati e siamo ardenti fautori della partecipazione delle
donne alla vita politica (…) Ma (…) sarebbe un grande errore il supporre che il
senso di responsabilità acquistato nella lotta quotidiana contro le difficoltà
della vita possa pienamente tener luogo alla coscienza politica (…) Le
militanti democratiche sapranno dare alle donne italiane una coscienza
democratica, esse sapranno valorizzare politicamente le grandi qualità naturali
che le donne porteranno nella vita pubblica»
La prima occasione di voto per
le donne furono le amministrative del 1946: risposero in massa, con
un’affluenza che superò l’89 per cento. Circa 2 mila candidate vennero elette
nei consigli comunali, la maggioranza nelle liste di sinistra.
La stessa partecipazione vi fu
per il referendum del 2 giugno. Le elette alla Costituente (su 226 candidate)
furono 21 pari al 3,7 per cento: 9 della Democrazia cristiana, 9
del Partito comunista, 2 del Partito socialista e una dell’Uomo qualunque.
Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”,
incaricata dall’Assemblea per scrivere la nuova proposta di Costituzione. Alla
socialista Merlin si deve la specifica della parità di genere inserita
all’articolo 3.
Di fronte a quella novità gli uomini e i
giornali ebbero atteggiamenti diversi. Il Messaggero, ad esempio,
raccontò la più giovane deputata eletta chiamandola “deputatessa” (apprezzabile
lo sforzo) e descrivendo i suoi riccioli:
“Teresa Mattei, la più giovane deputatessa”
«La più giovane deputatessa italiana alla Costituente ha molti bei riccioli bruni e due begli occhi vivi e ha venticinque anni: è nata a Genova, ha studiato a Milano, e a Firenze si è laureata in filosofia, durante la lotta clandestina».
«La più giovane deputatessa italiana alla Costituente ha molti bei riccioli bruni e due begli occhi vivi e ha venticinque anni: è nata a Genova, ha studiato a Milano, e a Firenze si è laureata in filosofia, durante la lotta clandestina».
Il primo intervento di una deputata della
prima legislatura su un tema non femminile fu invece raccontato così da Anna
Garofalo:
«Per la prima volta, da quando le donne siedono in
Parlamento, una deputata, Marisa Cinciari Rodano, del Pci, ha preso parola nel
dibattito di politica estera tra i giornalisti ci fu un moto che si potrebbe
chiamare di sfiducia preventiva. Non era una reazione politica (…) ma ci si
difendeva dal fatto che parlasse una donna. Fu così che (…) molti vennero presi
dall’impellente desiderio di bersi un caffè e altri andarono a fumare in
corridoio, riaffacciandosi di tanto in tanto per scambiarsi sottovoce frasi non
troppo nuove sulle pentole che l’oratrice avrebbe trascurato di far bollire e
sulle calzette che, certo, non aveva potuto rammendare».
La
storia delle ragazze del ’46
La storia di alcune delle prime donne che
votarono in Italia è stata raccontata anche nella miniserie Le ragazze
del ’46, trasmessa da Rai 3 tra maggio e giugno 2016. La
miniserie non ha raccontato la storia delle donne elette elette, poi diventate
molto conosciute, ma quella di altre dieci donne tra quelle che andarono a
votare. A quel tempo, ha raccontato al Post Cristiana
Mastropietro, produttrice della serie, «le ragazze del ’46 avevano tra i 21
anni, la maggiore età di allora, e i 31: la più giovane ora ha 91 anni, la più
grande ne ha 101. Le abbiamo intervistate nelle loro case, la maggior parte
vive da sola ed è completamente autosufficiente. Annita De Giacomi,
per esempio, che ha 101 anni, l’abbiamo vista fare l’uncinetto e rifarsi
il letto».
Queste dieci donne, «che non hanno la
pretesa di rappresentare tutte le donne dell’Italia del tempo», sono comunque
una «buona foto di gruppo»: sono diverse tra loro per provenienza, estrazione
sociale, istruzione e opinioni. «Ci sono una maestra elementare, unica carriera
all’epoca consentita a una donna, una casalinga, una donna emancipata che
rimase vedova molto presto e che decise di non risposarsi, una studentessa che
ha poi conseguito tre lauree ed è diventata la prima psicoterapeuta donna di Napoli,
un’altra ancora che invece venne tolta dalla scuola per andare a lavare i
panni. Ci hanno raccontato come hanno vissuto fino a quel momento e la
questione dell’istruzione torna molto nei loro discorsi, come un rimpianto o
come qualcosa di fondamentale nel loro percorso futuro. Ci hanno spiegato come
hanno vissuto la giornata del loro primo voto e anche come questo sia stato poi
l’inizio di un cambiamento».
https://www.ilpost.it/2016/06/22/donne-1946-voto-maturita-2016/
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