Nei fiumi dell’Australia c’è un pesce
che rastrella i fondali, succhia particelle di cibo e risputa i sedimenti, che
rimangono in sospensione nell’aria. Queste nuvole di pulviscolo intasano le
branchie di altre specie di pesci, intorbidiscono l’acqua – danno per le specie
che cacciano a vista – e ostacolano i raggi solari, impedendo la crescita delle
piante, con conseguente decimazione degli invertebrati che se ne cibano. Questo
pericolo per la biodiversità e una specie invasiva e resistente alle acque più
degradate: la carpa, che ormai rappresenta il 90 per cento della biomassa nei
fiumi australiani. Il governo la considera un male estremo, per il quale ha
escogitato un ancor più estremo rimedio: un virus da rilasciare nei fiumi entro
2018. Un piano da 10 milioni di euro, che in patria sta sollevando molte
perplessità. “Una volta in superficie, marcendo, le carpe uccise dal virus
sottrarranno ossigeno all’acqua, facendo danni anche alle altre specie” dice Mike
Braysher, docente di gestione delle risorse naturali all’Università di
Canberra. “Quando liberi un virus, come ne controllo la diffusione? Può
sopravvivere nelle gocce d’acqua sulle zampe degli uccelli e quindi diffondersi
anche per via aerea per centinaia di chilometri. E se non si rimuoveranno in
fretta i corpi dei pesci si rischierà di intossicare i piccoli acquedotti
locali collegati all’acqua fluviale”. Il virus, chiamato cyprinid herpesvirus-3
(CyHV-3),è stato studiato negli ultimi sette anni dal Centro di ricerca sugli
animali invasivi (Csiro) di Canberra e non avrebbe alcun effetto sulle
principali specie di pesci australiani e neppure su polli, topi e rane. Ma
perché proprio un virus? “I sistemi classici per controllare le specie invasive
– trappole, esche avvelenate e fucili – mettono a rischio anche altri animali”
dice Ken McColl, virologo dello Csiro. “I virus invece possono essere calibrati
su una singola specie. Negli anni ’50, diffondendo il virus della mixomatosi
tra i conigli, abbiamo ridotto la popolazione dell’80 per cento senza danni ad
altre specie. Ma forse eliminare le carpe non basterà. “La loro diffusione è un
sintomo del degrado dei fiumi, non la causa”. Contano molto di più altri
fattori, per esempio gli scarichi di fosfati dalle fogne o di fertilizzanti
agricoli, che producono un boom di alghe con l’effetto di ridurre l’ossigeno a disposizione
dei pesci. Però per il governo sarebbero molto più difficili e costosi da
affrontare obietta Braysher. Le carpe sono arrivate nei fiumi australiani nella
seconda metà dell’800, per il desiderio dei coloni inglesi di ricreare un
ambiente simile a quello della madrepatria, motivo per cui importarono anche
molte altre specie “aliene” come conigli, volpi, cervi. Fino al 1960 andò tutto
bene, poi un allevatore rilasciò presso la città di Boolarra una stirpe
particolarmente robusta, che da allora non si è più fermata. Anche per questioni
di fertilità: mentre i pesci nativi non depongono più di 70 mila uova all’anno,
la carpa può superare il milione. Neppure questi numeri basano però a dissipare
i dubbi sulla nuova strategia vitale, anche a causa dei grossolani errori
di compiuti in Australia in passato.
“negli anni’90 gli allevatori per proteggere le loro greggi, hanno ridotto con esche
e trappole la popolazione del più diffuso predatore australiano, il dingo (Canis lupus dingo). Risultato: con meno
dingo, i danni al bestiame aumentarono” racconta Braysher. “I cani randagi
occuparono infatti la nicchia ecologica lasciata libera dai dingo. E mentre i
dingo cacciano in branco e dividono la preda minimizzando gli sprechi, i cani
agiscono in modo disorganizzato uccidendo più prede di quante basterebbero ad
alimentarli”. Così gli allevatori si sono dovuti attrezzare per difendere le
loro greggi non dai dingo, ma da un nemico ancora più temibile. Il caso più
eclatante risale però al 1985-2001 nell’isola Macquarie: decimati i conigli, i
gatti selvatici si specializzarono nella caccia agli uccelli. Per difendere i
volatili, le autorità azzerarono la popolazione dei gatti. Ma ciò portò a una
nuova proliferazione incontrollata dei conigli e questi distrussero l’habitat
degli uccelli da tutelare. Così fu necessario intervenire di nuovo per ridurre
i conigli. Esistono anche esempi di controllo biologico intelligente: nel 2014,
per ridurre la popolazione di mosche delle boscaglie, sono state liberate in
Australia grandi quantità di scarabei stercorari. Portando sottoterra, sotto
forma di palline, tutti gli escrementi che trovavano, questi minuscoli spazzini
hanno ridotto il nutrimento e, quindi, la popolazione delle mosche. Senza
effetti collaterali.
Giuliano Aluffi – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 25
Novembre 2016 -
Nessun commento:
Posta un commento