All’inizio di gennaio 2017, il nostro
ministero dell’Interno ha reso noto che in tutto l’anno precedente sono entrati
in Italia 176.554 migranti; il nostro Paese è stato, insieme alla Grecia, la
porta di ingrasso di quasi la metà del totale europeo dei nuovi arrivati:
361.078. In tutta l’Unione Europea vivono (pare) 31 milioni di “stranieri”,
ovvero il 6,2 per cento della popolazione complessiva. Tanti? Troppi? La
paventata invasione islamica? O, invece: ancora troppo pochi per evitare che il
vecchio continente si spopoli e smetta di produrre? Circa 40 anni fa, un
eccezionale intellettuale inglese si propose (forse per la prima volta)
l’obiettivo di “imparare a guardare” gli immigrati. Si chiamava John Berger, ed
è morto novantenne il 2 gennaio scorso. Nella sua vita, Berger ha regalato a
milioni di persone romanzi, saggi, poesie, interpretazioni di opere d’arte – da
Picasso ai cartelloni pubblicitari, alla Cappella Sistina. Nel 1972 divenne
famoso con una serie di trasmissioni della Bbc in cu raccontava l’umanità
reale, le implicazioni e i misteri che un’opera d’arte nasconde, ma vuole in
realtà svelare. Con i soldi guadagnati, si propose uno strano compito: scrivere
e fotografare i migranti in Europa. Nel 1975 uscì il suo libro A seventh man (Il settimo uomo, o Uno su
sette), con le fotografie di Jean Mohr. La base di partenza stava nei
numeri. Berger calcolò che nell’Europa nordoccidentale all’inizio degli anni
Settanta vivessero 12 milioni di “cittadini inferiori”, marginali per il boom
economico del continente che era stato distrutto dalla guerra. Jugoslavi,
greci, turchi, portoghesi e siciliani mandavano avanti miniere, fabbriche di
amianto, la chimica più nociva, le catene di montaggio. Ogni sette lavoratori
indigeni, uno era un migrante; per il capitalismo, erano lavoratori ideali.
John Berger, appassionato marxista, svolse un’inchiesta molto pragmatica. E
documentò i migranti come sottopagati, disponibili agli straordinari, ai turni
di notte, di poche pretese perché single, facilmente licenziabili, calmieranti
le richieste di aumenti salariali della classe operaia tradizionale. La loro
partenza dai Paesi di origine (in genere zone rurali) ulteriormente svuotava
quelli di energia, di attività e di speranze. Il Paese di accoglienza invece li
rilegava in baracche, non dava loro istruzione, incamerava i loro contributi,
ben sapendo che sarebbero ripartiti prima di poter maturare una pensione; i
sindacati non li volevano tra i loro iscritti, la polizia espelleva i riottosi
o i potenziali leader politici. Intervistò centinaia di persone che chiamò con
i nomi con cui loro venivano chiamati: Zigeuner,
Lumpenpack, Kameltreiber, Schlagenfresser, ovvero zingaro, miserabile,
cammelliere, mangiatore di serpenti. Le foto di Jean Mohr li resero umani. Il
libro di Berger aveva anche una conclusione. L’assenza di libertà dei migranti
(uno ogni sette lavoratori) nel cuore dell’Europa del capitalismo liberale,
costituiva null’altro che un “fascismo economico”.
Enrico Deaglio – Annali – Il Venerdì di Repubblica – 13
Gennaio 20
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