“Yes we can, ripete Obama, imperterrito
e imbiancato, alla fine del suo discorso di commiato dalla presidenza degli Usa.
Ancora adesso, dopo otto anni, Barack Obama dice che malgrado tutto yes we can.
E se lo dice lui, che a furia di crederci e ripeterlo all’infinito ci è
riuscito davvero a “potere” più di tutti, forse anche solo per tornare più
giovani di otto anni, viene la tentazione di continuare a credergli, di
coltivare la speranza che non tutto sia perduto, e il cambiamento ancora una
volta possibile. Anche perché quello che parla è Barack Obama, non un
presidente degli Stati Uniti d’America qualsiasi. Ragion per cui l’ormai ex
presidente sprona e saluta a modo suo, vale a dire nel modo più bello,
autorevole, coinvolgente, emozionante e visionario, dato dalle possibilità
dell’oratoria politica di questi tempi. Dipingere prospettive per accompagnare
sogni e concretezza senza perdere la faccia cedendo alla pancia del consenso è
capacità ai confini del paranormale. Obama ci ha provato, e la delusione del
mondo progressista, date le aspettative enormi, tutto sommato è stata
contenuta. Poi però c’è pure l’altro di mondo. Quello che sogna altre cose, che
vuole tornare great again senza
badare troppo alle conseguenze, che di concretezza vuole soprattutto la
propria, e vale tanto quanto il mondo di Obama (uno vale uno, stavo per
scrivere). E per quanto ci si possa lamentare da sinistra degli otto anni di
leadership democratica, poi il cambiamento del cambiamento arriva fragoroso da
destra. E dalle parti di Obama cambiare è così clamorosamente possibile che
viene da pensare che gli americani abbiano preso lo yes we can talmente alla lettera da produrre, più che un
“cambiamento”, una vera è propria rivoluzione reazionaria, tanto e tale è
l’abisso valoriale tra Barack e il suo successore. Nei confronti del quale, in
omaggio ai corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, un italiano di media
età non può ravvisare già adesso lo stesso approccio che fu riservato a
Berlusconi. Non delle idee dell’uomo Donald si parla ora (quelle che l’anno
fatto vincere a sorpresa), ma di apparenza, stile, vizi, debolezze, bufale e
cafonate varie. Opporsi a Berlusconi non è mai stato tanto difficile come
quando, per anni, si è cercato di farlo sul terreno della pur deprecabile ma
efficacissima forma, anziché sui suoi contenuti. È lì che la sinistra mondiale
dovrebbe concentrarsi per limitare il contagio e far sì che quella di Trump sia
una parentesi la più breve possibile. Ma bisogna essere bravi come Barack.
Forse pure di più.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di Repubblica –
20 gennaio 2017 -
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