L’Odore di Naftalina nell’armadio della nonna, il percorso
di guerra, senza mai poggiare i piedi per terra, senza mai poggiare i piedi per
terra, ne bagno giallo della mia amica Nina, la bambina bionda che pendeva per
interi pomeriggi a testa in giù dalla struttura di ferro dei giardinetti a
testa in giù dalla struttura di ferro dei giardinetti (“Non ti dà fastidio
stare al contrario tutto il tempo? “No, mi piace. Vuoi provare?”. “No”), la
maestra che ci fa dire le preghiere ogni mattina e mio padre che, quando lo
scopre, va su tutte furie, il profumo della mamma, l’alfabeto farfallino,
l’incipit di una lettera ricevuta nell’estate della quarta elementare dal mio
compagno, nonché fidanzato, Filippo (“Cara Elasti, amore mio”), il nonno che mi
guarda, scuote la testa e dichiara sconsolato: “Ci prenderemo tutti quanti i
pidocchi”, una baby sitter che canta “Sebben che siamo donne, paura non
abbiamo”, per istallarmi la coscienza femminista, un’altra che si gira le
palpebre per il puro piacere di farmi paura. L’infanzia è un viaggio
impegnativo, pieno di sorprese, interrogativi, paure e scoperte. Plasma la
nostra forma e segna la direzione del nostro futuro, come nessun’altra fase
della vita. Lascia tracce indelebili e ricordi imprevedibili. Pianta semi che
determineranno chi siamo. Mi capita di condividere memorie con amici, cugini,
compagni di scuola che, in quei primi anni in cui prendevo le misure del
vivere, erano al mio fianco. Di rado rammentiamo le stesse cose perché
l’infanzia è un viaggio solitario ed egocentrico. Chissà se, tenendomi per mano
a quei tempi, i miei genitori avevano previsto cosa, in me, fosse destinato a
durare, e cosa invece sarebbe stato inghiottito da quel tunnel vorace che è di
dimenticatoio. Mi domando se sia possibile orientare i ricordi dei figli,
regalare radici profonde a quelli belli e recidere quelli dolorose e inutili.
In tal caso vorrei che conservassero il profumo dei pranzi della bisnonna, a
Bari, la voce di mio padre quando raccontava loro le storie, l’incredulità
stupita di ogni prima volta: il primo film al cinema, il primo bagno al mare,
la prima neve, il primo amore, la prima canzone preferita. Vorrei che si
ricordassero di me che li porto a una mostra e spiego loro la bellezza del
mondo, che canto, che rido, che li accolgo e li travolgo con la voluttà di una
passione sfrenata. Mi auguro che si dimentichino di me che sprofondo sul divano
inerte e sfinita, che urlo senza motivo, che li obbligo ad andare al corso di
nuoto quando non ne hanno voglia. Vorrei che conservassero luci, allegria,
complicità, iniziativa, curiosità e che buttassero via tristezze, interrogativi
cupi, insofferenza pigrizia, fallimenti e indolenza. Sono pochi e preziosi gli
anni in cui abbiamo il superpotere di dare forma e sostanza al destino altrui e
di preparare una valigia che attraverserà una vita intera. E’ una
responsabilità che inebria e annienta, al cospetto della quale nessuno di noi è
all’altezza. Mi avvicino al primogenito che ormai, dell’infanzia, sta perdendo
ogni fattezza. “Dimmi la prima cosa che ti viene in mente di quando eri
piccolo”, gli domando incauta. “Quando ti sei arrabbiata e mi hai rotto il
power ranger verde buttandolo per terra, come una pazza”. “E poi?”. “La notte
in cui ho vomitato su mio fratello perché mi avevate fatto mangiare troppe uova
di cioccolato”. “E poi?”, “Tu che mi leggevi un libro inadatto”. “Quale?”. “Il fantasma di Canterville. E io poi non
dormito per una settimana”. Annaspo. “Secondo te com’è stata la tua infanzia?”.
Gli domando, precipitando lungo una china senza fondo. “Media, madre. Media”.
Claudia de Lillo – Elasti – Opinioni - Donna di Repubblica –
21 gennaio 2017 -
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