Che Dire Dei Nostri ragazzi/e in piena adolescenza (14-18 anni) puniti dalla legge con la
reclusione per avere commesso dei reati? Da tempo abbiamo superato Lombroso,
per il quale si era “delinquenti nati”, e siamo sempre più convinti che
devianti si diventi e non si nasca! Eppure… Non sarebbe più corretto punire chi
è responsabile della loro mancata educazione al rispetto, al bene comune, alla
giustizia? E cioè i loro genitori, insegnanti, preti, educatori tutti? La loro
devianza è affermazione di sé, non realizzata nel nostro “fallimentare sistema
educativo. E allora con quale coraggio, dopo averli privati delle opportunità
educative, continuiamo a punirli con la privazione della libertà? In un
carcere, che la nostra stessa Costituzione nel suo art. 27 non propone! Educare
non è forse pratica di libertà?
In Occasione Di un incontro a Cagliari sul tema della libertà era parso
opportuno abbandonare l’uso di questa parola, molto affascinante quando viene
impiegata nel suo isolamento, ma difficile da reperire nei vari contesti
storici e biografici in cui andrebbe opportunamente inserita. In
quell’occasione conobbi don Ettore Cannavera, che un giorno decise di
utilizzare un significativo appezzamento di terreno collinare, che suo padre
gli aveva lasciato in eredità, per costruire un luogo, ricco di attività
lavorative, produttive e ricreative, dove fosse possibile offrire un’ultima
chance educativa ad adolescenti che avessero commesso reati e perciò puniti con
la reclusione. Fu in quell’occasione che nacque un discorso sulla libertà, a
cui io personalmente non credo, ma la cosa non è importante, perché decisivo è
il fatto che esiste comunque l’idea di libertà. E questa idea ha fatto la
storia, perché da essa è nata l’idea di una responsabilità individuale e di
conseguenza anche di una punibilità per chi non si dovesse attenere alle regole
condivise. Va da sé che lo spazio della libertà è direttamente proporzionale al
livello culturale di cui dispone ciascun individuo, a partire da dove è nato e
cresciuto, dalla famiglia che ha avuto, dalle scuole che ha frequentato, dalle
opportunità che, a partire da queste premesse, si sono per lui dischiuse.
Ricordo il caso di una sentenza molto lieve emessa da un giudice tedesco a
proposito di un sardo, il quale, dopo aver abbandonato la sua vita da pastore
nella sua terra d’origine, si era trasferito in Germania a fare l’operaio in un’industria
automobilistica, dove aveva commesso il reato per cui veniva giudicato. Il
giudice tedesco disse che non era possibile applicare meccanicamente la pena
prevista per quel reato senza tener conto del grado di libertà dell’imputato,
che era da considerarsi proporzionale alle sue condizioni di provenienza. Si
parlava di un uomo cresciuto nella solitudine dei monti, con uno scarso livello
culturale, che da un giorno all’altro era venuto a trovarsi in terra straniera,
dai costumi radicalmente diversi da quelli in cui era cresciuto. La sentenza a
fece discutere, e venne discussa anche dai sardi che, giustamente per come era
stata formulata, si sentirono offesi. In realtà questa sentenza non faceva che
applicare il principio aristotelico per il quale: “Dal momento che la legge è
una norma universale, quando la si applica ai casi particolari va corretta con
l’equità, che in molti casi è migliore della giustizia, perché corregge la
legge là dove essa fa un’omissione a causa della sua universalità” (Etica a Nicomaco, 1173b). Se riusciamo a
cogliere il nesso tra libertà e il grado di formazione, allora anche la
punibilità deve misurarsi sul grado di formazione, che scopriamo essere alla
base della convivenza civile e delle regole che la governano. E’ possibile che
di questo nesso, oltre che la giustizia, si renda conto anche la scuola? E una
buona volta capisca l’importanza dell’educazione la quale, a differenza
dell’istruzione che si limita alla trasmissione di competenze, affina la percezione
della differenza tra il bene e il male, amplia lo spazio della libertà intesa
come possibilità di scelta, induce la responsabilità come capacità di
rispondere delle proprie azioni, in quanto consapevolmente compiute. Su questa
strada la giustizia ha già iniziato a incamminarsi da tempo, mentre la scuola
ha abbandonato questa strada che per prima aveva aperto, per ridursi a mera
valutazione di prove oggettive, dove la soggettività dello studente, non
essendo oggettivamente valutabile, è del tutto trascurata, senza che molti
insegnanti abbiano la più pallida consapevolezza di avere smarrito così la
ragione vera della loro professione.
umbertogalimberti@repubblica.it
- Donna di Repubblica – 21 gennaio 2017
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