“Un Bel Giorno, sulla fine del 1945… (un amico
direttore) pensò che io avrei potuto essere un discreto corrispondente da New
York. Nessuno in Italia se n’era accorto prima, avevo ormai 63 anni sulle
spalle e molta disperazione nel cuore, nessuna ambizione di scrittore, o di
miglioratore del genere umano, ma invece sentivo il bisogno di mandare qualche
soldo ai miei in Italia, che il cambio irragionevole di quei tempi costringeva
a strettezze. Sicché accettai, pur sapendo che per fare il corrispondente sul
serio di un giornale ci sarebbero voluti dei mezzi, di cui il giornalismo
italiano non disponeva allora”. Comincia così il libro Tutta l’America di Giuseppe Prezzolini. Pubblicato nel 1950, oggi è
introvabile, forse anche perché il suo autore è finito nell’oblio. I suoi libri
non vengono ristampati. Eppure Prezzolini fu un intellettuale importante, solo
occasionalmente giornalista, ma abbastanza da influenzare alcune grandi firme
del Novecento: da Indro Montanelli a Enzo Biagi. Prezzolini era stato
volontario al fronte nella Prima guerra mondiale, e su quel conflitto scrisse
testimonianze memorabili. Ebbe un flirt iniziale col fascismo, ma se ne staccò
fino a scegliere un semi-esilio negli Stati Uniti dei quali prese la
cittadinanza. Fu un italianista prestigioso alla Columbia University. Nei suoi
anni americani visitò in lungo e in largo questo paese, per raccontarlo agli
italiani che ne avevano un’immagine stereotipata piena zeppa di luoghi comuni,
di pregiudizi grossolani. Rileggere oggi quelle sue cronache è un’esperienza
preziosa. Anzitutto, come si capisce dalle righe che ho citato, ci porta
indietro a un’era di giornalismo povero nel senso letterale, economico: quello
dove siamo tornati, visto che i soldi veri stanno in social media come Facebook
o aggregatori di notizie come Google, ma non vengono investiti nella qualità
dell’informazione. Poi da quelle pagine ricevo una lezione di umiltà: abbiamo
spesso l’impressione di vivere un’epoca eccezionale, senza precedenti, dove
tutto ci appare nuovissimo. E invece la storia ha una curiosa tendenza a
ripetersi, torna sui suoi passi, “fa la rima a se stessa”, come diceva Mark
Twain. Prezzolini scriveva: “Gli Stai Uniti sono oggi per alcuni un incubo, per
altri un miraggio, per molti un enigma o un labirinto, per tutti un centro di
forza e di vita che attira e che spaventa, del quale nessun popolo potrebbe
fare a meno ma che, nello stesso tempo e appunto per questo, suscita
apprensione e persino odio”. Cambiate firma e data, può essere stato scritto
ieri. Ultima lezione: il “modello americano”, il laboratorio delle novità
politiche ed economiche, l’esperimento costante a cui guardiamo con ammirazione
o con ripugnanza, è stato di volta in volta delle cose diversissime. Talvolta
l’esatto opposto di quello che crediamo di ricordare. Ecco un elenco dei cambiamenti
che Prezzolini descrive nell’America di Roosevelt: “L’antico individualismo si
è smorzato per obbedire alla tendenza della maggioranza verso la sicurezza
sociale e lo Stato paternalistico ed all’orrore del rischio, sconosciuto alle
vecchie generazioni americane; lo Stato federale ha cresciuto le funzioni e
moltiplicato gli impiegati, è diventato il più grande banchier e il più grande
industriale del paese; l’immigrazione è stata ristretta e per alcune razze si
può dire cessata; le tasse impediscono la formazione di grandi patrimoni,
taglieggiano le ereditò, scoraggiano dal guadagnare troppo”. E’ un’America al
tempo stesso socialista e xenofoba, egualitaria ed etnicamente omogenea, quella
uscita dalla Seconda guerra mondiale. Quanto è cambiata da allora. In peggio o
in meglio, forse in tutt’e due le direzioni. Quanto cambierà ancora? Rendendo
effimere le nostre analisi, le nostre paure, le nostre certezze.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di Repubblica – 21
gennaio 2017 -
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