È proprio vero che noi possiamo “essere” solo se
“abbiamo” sufficienti mezzi economici per scegliere, temporeggiare, investire e
dare? Com’è possibile continuare a coltivare i propri sogni senza sicurezze economiche?
Ho 31 anni, ho studiato a Roma e lavorato a Londra, ho perso mio padre e per
adesso sono qua a constatare che le discipline umanistiche sono considerate
terreno per persone agiate; a sentirmi dire che le arti sono una velleità da
ricchi; a vincere bandi che poi non ti finanziano come dichiarano; a inventarmi
piani B, a correggere sempre la rotta, a interrogarmi sul futuro, a chiedermi
cos’altro fare, e come non rassegnarmi. Come si è arrivati a dovere scegliere
tra un lavoro full time che non ci piace e che ci permette di pagare l’affitto
– salvo poi lamentarsi dei lunedì, e farsi venire gastriti e dermatiti come
risposta urlata del corpo – e una collaborazione occasionale che ci
interesserebbe, ma che non ci possiamo permettere? Quale società è così egoista
e chiusa da lasciar spazio di carriera (forse) solo a chi ha “le spalle
coperte”, a chi è già “avviato”, a chi ha la casa di proprietà, a chi ha
garanzie per il mutuo, o a chi si ritrova tempo libero da usare per farsi un
nome? Tutto questo svuota parte del mio essere, cambia le mie scelte, e crea
reazioni a catena troppo lunghe da spiegare qui. Mi sento stanca, arrabbiata e
preoccupata. Lei che ne pensa?
Maria Giulia M. mg131m@mail.com
Maria Giulia M. mg131m@mail.com
Il Tempo Che voi trentenni state vivendo è catastrofico. Anche perché nessuno vi ha avvertiti che l’epoca in cu a studiare erano pochi e le professioni aperte erano tante si è progressivamente conclusa a partire proprio dagli anni della vostra nascita. I fattori sono tanti: molte industrie familiari, morto il fondatore, sono state vendute a compagnie straniere che hanno subito provveduto a ridurre il personale, o addirittura a chiuderle per togliere dal mercato un concorrente. I diplomi, che un tempo abilitavano subito al lavoro, sono stati sostituiti dalle lauree che hanno spostato di cinque o sei anni (quando va bene) l’ingresso nei vari impieghi. Nel frattempo i giovani sono vissuti sulle spalle dei genitori erodendo la loro ricchezza e perdendo la propria autostima. I progressi della medicina hanno spostato di venti o trent’anni il ricambio generazionale, con costi significativi per il mantenimento di un’interminabile vecchiaia, e conseguente riduzione dei beni da ereditare. Insomma, peggio di così per la vostra generazione non poteva andare, anche perché, a differenza di quelle che verranno dopo di voi e che non nutrono alcuna illusione, nessuno vi aveva preparati. Il secondo fattore negativo della vostra epoca è che un tempo, a promuovere la vita, c’erano diversi valori: i valori della nobiltà, della bellezza, della convivenza, della parola data, della cultura, dell’arte. Oggi tutti questi valori sono stati cancellati, come lei dice, da quell’unico valore che è il denaro, divenuto generatore simbolico di tutti i valori, per cui l’arte è tale se entra nel mercato, la cultura è apprezzata se vende, la parola data può essere rinnegata se non più conveniente, e anche il mondo delle relazioni è coltivato solo se garantisce un qualche vantaggio economico o di prestigio. Persino quando entriamo in un negozio, la gentilezza che ci accoglie non è riservata a noi, ma a quanto possiamo spendere. In un mondo ridotto a questo livello, come si fa a sognare? Il sogno è una cosa bellissima se nel suo segreto racchiude un progetto che si può realizzare, altrimenti è un gioco d’illusioni che, se non sono riconosciute, preparano la delusione. C’è una sola cosa che rifiuta il calcolo, d’interesse, il perseguimento di uno scopo, persino la responsabilità che il vivere sociale ci richiede. È una cosa che ci consente di vivere la spontaneità, la sincerità, l’autenticità, l’intimità, persino l’irrazionalità, che non è più possibile esprimere nella nostra società tutta calcolo e interesse. Questa cosa è l’amore, vero contraltare della realtà sociale, dove non ci è più consentito essere noi stessi, reperire un senso che sia davvero nostro, una libertà che sappia spingersi fino al limite della follia. Se non altro per controbilanciare quell’altra follia, che un gioco subdolo e ingannevole di parole chiama “razionalità” del mercato e della tecnica, la quale, come già un secolo fa ci avvertiva Max Weber, ci costringe a vivere in una “gabbia d’acciaio”. E dico questo perché più si espande e diventa totalizzante il regime della razionalità, più diventa attraente nell’amore l’irrazionalità che lo governa. Naturalmente anche qui nulla è garantito, soprattutto se il nostro bisogno di sicurezza fa entrare il calcolo anche nelle cose d’amore.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 7 gennaio
2017
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