Fare Il Membro Di Una
Giuria Popolare è un
mestiere a tempo pieno, finché dura il processo. Sono convocato alle 9 del
mattino e rilasciato verso le 5 del pomeriggio. Il mio “altro” lavoro devo
concentrarlo prima dell’alba anticipando di molte ore la sveglia, poi ho
un’oretta e mezza di intervallo pranzo che passo incollato al computer; poi
ancora la sera tardi. Rinuncio alla vita sociale, cancello viaggi, disdico
visite mediche. E non posso lamentarmi perché gli altri 13 giurati (siamo 12
membri permanenti e due supplenti) Hnno problemi grossi quanto i miei o di più:
c’è un afroamericano che fa l’autista in proprio e sta perdendo un sacco di
soldi, nel suo caso c’è una diaria ma è ridicola (40 dollari al giorno); c’è
una mamma single che non può andare a prendere il figlio all’asilo nido.
Nessuno ti ringrazia, nessuno ti compiange. Fare il giurato popolare prima o
poi capita a tutti. Amministrare la giustizia qui è un dovere civico ed è anche
un diritto: il giorno che dovessimo finire noi sotto processo, è considerata
una garanzia che a giudicarci siano i nostri pari, altri cittadini come noi
(poi magari se sei nero in uno Stato del Sud, e ti trovi davanti una giuria di
soli bianchi, la garanzia è discutibile). Ma soprattutto, il sacrificio che
stiamo facendo noi è poca cosa rispetto alla posta in gioco per le presunte
vittime e gli imputati. Le loro vite sono nelle nostre mani. Sbagliando
decisione finale potremmo mandare in carcere degli innocenti, o lasciare impunito
un crimine e tradire le vittime. Sto imparando molto, su ambienti sociali
lontani dal mio, mondi dove la realtà quotidiana è fatta di miseria,
sfruttamento, prostituzione, estorsione. Sulla cita dei poliziotti a contatto
quotidiano con la violenza, l’inganno, l’abuso. Suk traffico sessuale, le donne
che finiscono in quel giro. Sull’immigrazione clandestina e l’insicurezza
creata dallo status d’illegalità e precarietà che rende ricattabili. Sto
imparando ancora di più sui miei limiti. Un giornalista in fondo si muove su un
terreno non molto diverso da un giudice e da un poliziotto: la ricerca della
verità, lo sforzo di imparzialità e di oggettività. Prima di dire innocente o
colpevole dobbiamo ascoltare tutte le versioni, metterci in tutte le angolature,
riconoscere che la verità a volte non è bianco o nero, che in tutte le
situazioni umane esistono zone di ambiguità. Da giurati dovremo decidere in
coscienza, “al di là del ragionevole dubbio”, se prove e testimonianze
conducono alla condanna o all’assoluzione. (..) Mi consola in parte il fatto
che non sono solo. Alla fine saremo in 12 a consultarsi, discutere fra noi e
decidere. Il mio parere sarà bilanciato da quello di altre persone, donne e
uomini, neri e asiatici e bianchi, ciascuno avrà portato la sua esperienza di
vita e il suo buonsenso e speriamo che i pregiudizi degli uni e degli altri si
compensino. Ci vuole pazienza, concentrazione, consapevolezza dei propri
limiti, spirito di cooperazione. E così in fondo sto ricevendo anche una
lezione sulla democrazia. Se è sana, se funziona come deve, se ci crediamo
davvero, la democrazia assomiglia proprio a quello sforzo che stiamo facendo
noi 12 giurati popolari, micro campione della società. La democrazia è fatica
quotidiana per raggiungere un po’ di giustizia, qualche soluzione ai torti,
mediando fra sensibilità diverse, dialogando per conciliare punti di vista
conflittuali. E poi alla fine, ma solo alla fine, si vota e ci si conta. Com’è
distante, questo piccolo esercizio di democrazia fatto da noi giurati chiusi in
una stanza per sette ora al giorno e per tanti giorni di fila, dal dibattito
politico fatto a colpi di slogan, di 14° caratteri, le battute lapidarie su
Twitter, le frasi a effetto e gli insulti, le semplificazioni e le aggressioni
verbali, il disprezzo dell’avversario.
Federico Rampini – Opinioni – La Donna di Repubblica – 8
Ottobre 2016 -
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