“Le leggi della natura non sono fatte per noi”. Il suo pezzo così
intitolato è rimasto a lungo sul mio comodino, e come sempre il suo punto di
vista ha centrato bene il dilemma, però al suo discorso manca qualcosa. Il vissuto
mio e di tante donne come madri, procreatrici e allevatrici. In particolare il
periodo dell’allattamento. Il sangue e il latte permettono alle donne di
connettersi fortemente a una parte della nostra umanità così fortemente
complessa, una parte molto arcaica. Non so come spiegare, ma è qualcosa di
profondo che a noi in quei momenti sembra quasi un disagio, dentro la velocità
del mondo attuale. Poi l’uomo è capace di tutto e con buona volontà e con molta
buona educazione, supplisce alle mancanze, ma dalla mia esperienza penso che il
rapporto interiore con le nostre funzioni biologiche sia unico e
insostituibile.
Paola Gamba – gamba.paola@libero.it
Nei giornali i titoli li fanno i
titolisti, che spesso sono più bravi degli autori a interpretare non solo il
senso dell’articolo, ma anche la capacità di attrarre i lettori a leggerlo. Il
titolo che lei cita ha creato diversi fraintendimenti. Molti hanno pensato che
è cosa buona che l’uomo si allontani dalle leggi della natura, quando invece il
mio intento era semplicemente dire che la natura è del tutto indifferente alla
sorte degli individui, nei confronti dei quali non risparmia terremoti, tsunami, epidemie, malformazioni
alla nascita, sterilità e via dicendo. Per cui se, con il soccorso della
tecnica, l’uomo riesce a porre rimedio ai mali “naturali” non trovo ci sia
nulla da obiettare. Stante l’equivocabilità di quel titolo, lei ha pensato che
volessi invitare le donne ad allontanarsi da quella completa adesione
all’ordine naturale che vivono durante la gravidanza, la nascita,
l’allattamento e in generale in tutto il periodo delle cure materne. Non era
questo il senso, ma già che ci siamo discutiamo di quel conflitto che, ammesso
o negato che sia, comunque nella donna esiste: tra il suo io che, al pari di
ogni io, ha i propri ideali da realizzare, progetti da conseguire, amori da
vivere, sogni da accarezzare, e quell’altra soggettività che la prevede
funzionaria della specie e la costringe a subire la trasformazione del corpo,
il trauma della nascita, la dedizione per l’allattamento, il sequestro del
sonno, del tempo, talvolta del lavoro, della sua carriera, degli amori che non
sono necessariamente limitati a chi vive con lei. C’è chi, come lei descrive
nella sua lettera, durante la gravidanza, la nascita e la cura del neonato, si
allontana dal mondo dell’io in cui abitualmente viviamo, per abitare
incondizionatamente quell’accanimento naturale, i cui tempi sono scanditi non
più dalle incombenze del mondo ma dai ritmi della natura. E in questo ritorno
dal mondo alla natura si vive quella serena passività in cui non c’è nulla da
decidere, ma solo da assecondare: le tappe, i passaggi e le trasformazioni che
l’ordine naturale chiede. (..) Ci siamo allontanati troppo dalla natura per non
voler assolutamente vedere chi propriamente siamo: funzionari della specie che
ci fa nascere, per amore o per caso ma senza un vero perché, ci dota per un
certo periodo di sessualità per la procreazione e di aggressività per la difesa
della prole, per poi privarci dell’una e dell’altra e consegnarci alla morte in
quanto non più utili alla sua economia. Per non accettare questa condizione,
abbiamo potenziato il nostro io e l’abbiamo incaricato di creare e realizzare
scopi, ambizioni, successi, obiettivi, e poi ancora di sognare e amare e
tornare ad amare e sognare, finché la morte, sui cui l’io non ha potere, decide
la fine del nostro gioco. Tanto più tragica quanto più la vita è stata condotta
all’insegna dell’io e lontano dalla natura che ne decide i tempi. Natura,
Specie, Terra sono parole finite nel nostro inconscio, per questo trova assurda
la nostra morte e, nelle sue prossime perché espulse dalla nostra coscienza,
che per questo trova assurda la nostra morte e, nelle sue prossimità, insignificante
la nostra vita condotta all’insegna dell’io.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 2 luglio 2016 -
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