Una manciata di minuti e si consuma il dramma di quella che i media ricorderanno come Strage di Natale, primo atto della sanguinosa guerra di mafia che raggiungerà il culmine nei primi anni Novanta. Dopo aver percorso circa 8 km di galleria, in località San Benedetto Val di Sambro, si avverte un tremendo boato e in una frazione di secondo il convoglio si trasforma in un'infernale trappola di fiamme e schegge di vetro impazzite.
Il buio della galleria aumenta il panico delle persone che ignorano cosa sia
accaduto, ma le grida di dolore e di disperazione di alcuni fanno presagire il
peggio. Particolarmente straziante (come riportato dalle testimonianze dei
sopravvissuti) è la voce disperata di una madre che chiama «Federica!
Federica!», cercando sua figlia di 12 anni.
Ma il nome della ragazzina finisce nell'elenco delle 17 vittime (tra
di loro altri due bambini, di 4 e 9 anni), di cui 15 morte sul colpo e altre
due per le gravi ferite riportate. Gli oltre 260 feriti vengono soccorsi non
senza difficoltà, visto che la linea elettrica è stata messa fuori uso
dall'esplosione e la galleria - completamente al buio per la poca autonomia dei
neon d’emergenza - è invasa dal fumo.
Determinante è la prontezza d'intervento del personale del treno (che riceverà
per questo una medaglia d'oro) e la rapidità dei soccorsi, coordinati dal servizio
centralizzato di Bologna Soccorso che, in occasione dei Mondiali di Calcio
1990, diverrà il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118.
L'acre odore di polvere da sparo avvertito dai soccorritori fa capire che si è
trattato di un attentato. Le prime ipotesi ricadono sulla matrice terroristica
ma gli anni di piombo sembrano ormai archiviati e molti
dettagli portano in tutt'altra direzione.
Agli inquirenti non sembra infatti una casualità che l'episodio sia avvenuto
poco distante dal luogo di un'altra tragedia avvenuta dieci anni prima:
la strage del treno Italicus, in cui erano morte 12 persone. Si
sospetta una strategia precisa di più soggetti. In questo scenario, assume un
valore altamente simbolico la scelta dei parenti delle vittime di non
autorizzare i funerali di Stato.
Nel frattempo emergono i primi riscontri. Un testimone afferma di aver notato
qualcuno che ha sistemato due borsoni nel portabagagli del corridoio della nona
carrozza, durante la sosta alla stazione di Firenze. Questo sposta l'indagine
nel capoluogo toscano, dove viene presa in carico dal procuratore Pier
Luigi Vigna.
Ma la vera svolta arriva a marzo dell'85, con l'arresto a Roma di Guido Cercola
e del pregiudicato Pippo Calò, vicino a Cosa nostra, entrambi
accusati di traffico di stupefacenti. La perquisizione nel loro covo fa
emergere una valigia con dentro un apparato ricetrasmittente, antenne, cavi,
armi ed esplosivi. Tutto materiale giudicato compatibile con quello utilizzato
per la carneficina del 23 dicembre.
Le nebbie si diradano e la verità comincia a venire a galla: si tratta di
un attentato mafioso, il primo realizzato con un telecomando a
distanza. Emerge il disegno criminale di uccidere quante più persone possibili,
legato alla scelta di azionare il dispositivo nel momento in cui il treno era
dentro la galleria, amplificando così la forza distruttiva della detonazione.
Ma la mafia non ha fatto tutto da sola.
I legami di Calò con camorra napoletana, ambienti eversivi di destra e Loggia
P2 fanno pensare a una strategia condivisa per rispondere alla guerra che lo
Stato ha dichiarato alla mafia in quegli anni. Protagonisti di questa battaglia
sono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli
altri giudici del pool antimafia, le cui indagini portano nel 1987 alla
celebrazione dello storico maxiprocesso di Palermo.
Le inchieste siciliane s'incrociano con quella sulla strage di Natale, di cui
il procuratore Vigna accusa Calò e Cercola, indicando come scopo finale quello
di «distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta
alle centrali emergenti della criminalità organizzata, che in quel tempo subiva
la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l'immagine del
terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni
impegno di lotta dello Stato».
Per entrambi arriva la condanna all'ergastolo, confermata in via definitiva nel
1992. Nel 2011, le rivelazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca
portano all'arresto di Totò Riina (già condannato all'ergastolo in quanto capo
della cupola mafiosa e ideatore della strategia stragista, cui si ricollegano
le stragi di Capaci e via D’Amelio) quale mandante dell'attentato
al Rapido 904.
http://www.mondi.it/almanacco/voce/8197
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