Dalla fine degli anni
’80 è stato perseguito il disegno di trasformare la scuola in azienda, con
l’introduzione di parametri estranei alla logica secolare di una delicata
attività come quella di imparare/insegnare. Come docenti, in molti ci siamo
battuti contro questo disegno che, come osserva il dott. Galimberti, prevede
per esempio la prova di comprensione di un testo, dove l’importante non è
analizzare stili e concetti, riportare impressioni, emozioni, ma individuare
qualche termine equivoco. L’esempio illustra che ciò che importa è la capacità
micrometrica di trovare il “pezzo” fallato. Se si applica questo concetto di
abilità tecnica, di fiuto osservativo, a un processo produttivo, si capirà il
disegno di liquidazione di un’attività discente/docente libera e creativa . Yannis Romeo romeoyannis@gmail.com
Insegno scienze umane
in un liceo e mi domando come contestare la pigrizia o i cattivi esempi di
certi insegnanti. Come impedire che queste figure, seppure non maggioritarie,
rovinino la vita quotidiana a scuola dei ragazzi nella totale impunità,
mortificando la loro passione, vitalità e curiosità? Perché, partendo almeno
dalle classi quarte e quinte delle superiori, non si può dare voce ai ragazzi?
Perché non introdurre forme attente e calibrate di valutazione pubblica di
certe enormità che nessuno osa denunciare, in una scuola immersa completamente
nei codicilli e nelle garanzie sindacali? Perché dovrebbe spaventare la
denuncia compatta e pubblica da parte di una classe di un loro insegnante
assenteista, arrogante,incapace di fornire stimoli? Siamo certi che l’anestesia
dal giudizio sia la scelta più valida per educare al giudizio? Penso che per
cambiare veramente la scuola si debba iniziare colpendo i casi più disarmanti
ed evidenti e di grettezza e disonestà. Sarebbe un grande segnale di
responsabilità verso tutti i nostri giovani. giangranco.roncarolo@fastwebnet.it
Della quarantina di lettere ricevute a commento del mio
intervento sulla scuola dal titolo “Quando il modo di insegnare fa saltare il
banco”, pubblico gli estratti di due sole, che hanno capito gli obiettivi della
mia denuncia: !) i pedagogisti che, con la loro riforma della scuola, alla
“qualità” dell’insegnamento hanno sostituito la
“quantità” dei prodotti scolastici, onde misurare “scientificamente”
quanto s’insegna e si apprende; 2) quei professori che, senza ribellarsi, si
sono adeguati a una trasformazione della didattica che li impegna solo
burocraticamente, esonerandoli dal mettere in gioco la loro passione e la loro
personalità. E così si ottengono come risultato la demotivazione degli
studenti, che a loro volta in numerosi mi hanno scritto non per lamentarsi dei
loro insegnanti, ma per segnalarmi che in una scuola così impostata non trovano
nulla che li coinvolta veramente. (..) Stante il piccole test, viene da chiedersi se i professori capiscono ciò
che leggono, o se il bisogno di difendere la categoria è più forte della
comprensione dei problemi che affliggono la scuola che ogni giorno frequentano
(non si sa con quanto interesse, passione e senso di responsabilità, dato che
questi aspetti, qualitativi e non quantitativi, anche se noti non sono
misurabili). Questo è il grande problema
della scuola che nessuna riforma ha mai toccato, anche se tutti sanno che la
formazione di un ragazzo, e di conseguenza anche la forma che assumerà la sua
vita, dipende proprio dai “maestri” che ha la fortuna di incontrare. (..). Là
dove è in gioco il profitto questi strumenti di valutazione ci sono, mentre non
ci sono dove in gioco c’è l’educazione dei nostri ragazzi. Segno che nella
nostra cultura le agenzie educative non sono in grado di competere con quelle
produttive e finanziarie. Perché il denaro sa difendersi subito
dall’inefficienza, mentre l’educazione, nonostante tutte le riforme della
scuola che si sono succedute, non ha trovato ancora il modo di farlo.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 14 maggio 2016 -
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