Avvolto in una nuvola bionda come un
piumino per la polvere punteggiata da due occhietti maliziosi, entra nella mia
vita un altro cane. Un cucciolo di Golden Retriever chiamato Sammie, con la
“ie” finale, guai a dire “Sammy”, i suoi fratelli e sorelle senza coda mi
fulminerebbero. Ci entra dalla porta
laterale, perché Sammie non è mio, ma dei miei nipoti e quindi posso guardarlo
crescere con l’occhio più distaccato del “nonno del cane”. Grazie a questa
situazione di privilegio che mi permette di ammirare il agnolotto senza le
scocciature che un cane in casa comporta, assisto finalmente con più
obiettività all’evento che si ripete da circa centomila anni, giorno più giorno
meno, da quando scattò la relazione fra uomini e cani: l’addestramento. Come
padrone, o compagno, o assistente o capobranco o come sia politicamente
corretto oggi definire chi ha un cane, ho accolto, cresciuto, tenuto e
purtroppo messo a dormire due stupendi pastori tedeschi, fisicamente cloni
l’uno dell’altro, ma ai poli opposti del comportamento. Timido e tendente
all’autocolpevolizzazione il primo, Vox, che se avesse saputo leggere si
sarebbe sentito responsabile anche di eruzioni vulcaniche nelle Filippine e
attentati terroristici in Afganistan. Prepotente, possessivo, territoriale il
secondo, Max, che considerava l’esistenza di ogni altro cane sul pianeta come
un’offesa personale. (..) Giorno dopo giorno, con la inflessibile capacità di
osservazione di tutti i discendenti dei lupi, impararono che i loro
comportamenti producevano in noi umani alcune risposte e generavano quello che
loro volevano da noi, rovesciando il famoso teorema di Pavlov sui riflessi
automatici dei cani. Vox e Max sapevano esattamente che cosa fare per
costringermi a portarli fuori in ogni periodo e con ogni tempo, avendo capito
che farla in casa produceva in me, e nella femmina alfa del branco, la gentile
signora, reazioni scomposte e furiose. Vuoi che non la faccia sul tappeto
caucasico, sul parquet, sulle piastrelle di cucina? Portami a spasso, cocco
bello. Vuoi che mi tolga di mezzo quando passi con l’aspirapolvere? Lanciami
una crocchetta, un biscottino, un giocattolo perché mi tolga dai piedi. Vuoi
che la smetta di tormentarti mentre guardi ventidue bipedi in mutante
rincorrere, come facciamo noi cani, una palla? Carezzami e passa l’osso. Vuoi
che rimanga calmo quando incrociamo un altro umano con un cane al guinzaglio?
Rimani calmo tu per primo. E ti insegnerò, sera dopo sera, dove io, il cane,
voglio andare, non dove tu, uomo, vuoi portarmi. (..). I cani sono abilissimi,
più dei nostri parenti geneticamente più vicini, i primati, a capire per
esempio dove conserviamo il cibo, semplicemente seguendo lo sguardo della
persona che in casa tende a preparare più spesso i pasti. Registrano i nostri
movimenti leggendoci come libri aperti, dai segnali inconsci che inviamo.
Sanno, senza saperlo, che il successo della nostra specie è dipeso, nel
crogiolo dell’evoluzione in un mondo ostile e vorace, da loro quanto la sopravvivenza
della loro specie è dipesa da noi. Psicologi e zooantropologi hanno calcolato
che nel corso dei millenni le parti del nostro cervello dedicate ad olfatto e
udito si sono ridotte, come se, grazie al naso e alle orecchie dei cani, ne
avessimo fatto sempre meno uso, affidandoci a loro. Mentre sono cresciute
quelle addette al pensiero razionale, lasciando a noi umani la scocciatura del
ragionamento. E sarà anche vero, ma quando Sammie (“ie” finale, per favore) mi
osserva con la sua testa inclinata e quei suoi occhietti ironici, ho il
sospetto che se lui potesse scrivere, scriverebbe meglio di me.
Vittorio Zucconi – Donna di Repubblica – 14 maggio 2016 -
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