Gennaio 1993. Il monte Pellegrino
inaspettatamente è imbiancato. Piove. All'uscita della stazione, nel frastuono
della città, un'inconfondibile lamento di sirene. Sembra di essere a New York
in uno di quei film polizieschi anni '80. No è Palermo. Salto in autobus
diretto a via Cavour. Davanti al numero 56 c'è una pattuglia della polizia.
All'ingresso due uomini in borghese. La scorta. Sto per entrare, vengo
fermato. «Giovanotto, dove va?» mi dice uno dei
due. «Ho appuntamento
con la signora Grassi». La risposta è sfrontata. I miei vent'anni
mi portano a sottovalutare il difficile lavoro degli "angeli
custodi". Intanto arriva Pina sull'uscio. Mi accoglie con sorriso
disarmante. Entro. Siedo tra i tessuti e tiro un sospiro di sollievo.
Così è cominciata la mia ricerca
biografica su Libero Grassi. Due anni prima l'imprenditore ha scritto sul Giornale di Sicilia la
famosa lettera al «geometra Anzalone», Caro
estortore non ti pago. Confesso di essere andato in Sicilia con
l'intento di raccogliere notizie sensazionali sulla sua ribellione. Avevo in
mente uno stereotipo di eroe donchisciottesco che volevo raccontare. Libero,
anche grazie allo sciame mediatico è ormai un simbolo. Per me qualcosa in più.
Nel 1992 un gruppo di giovani repubblicani, tra i quali anch'io, costituiscono
il Coordinamento Libero Grassi. Chiediamo al nostro partito di seguire il
monito di Libero: «la
qualità del consenso elettorale». Un tema ancora oggi molto
attuale. Durante la trasmissione televisiva Samarcanda (11 aprile 1991)
afferma: «La prima
cosa che controlla la mafia è il voto... Ad un cattiva raccolta di voti
corrisponde una cattiva democrazia... La legge la fanno i politici ed è
relativa al consenso: se i politici hanno un cattivo consenso faranno delle
cattive leggi». In quello stesso anno ha partecipato al congresso
siciliano del Partito Repubblicano Italiano (al quale è iscritto) reclamando
l'allontanamento di Aristide Gonnella, implicato in vicende mafiose.
Per noi giovani repubblicani è l'esempio
di un rinnovamento morale da imitare. Credevamo davvero di militare nel
«partito degli onesti», ma ben presto ci rendiamo conto che non è così.
Decidiamo, allora, di percorrere un'altra strada e ritrovarci sotto la bandiera
di Libero.
Quando Pina comincia a raccontare le
vicende biografiche del marito, comprendo immediatamente che la ribellione
civile alla mafia non è la follia di un eroe solitario ma la conseguenza di
scelte compiute nel corso di un'intera vita. Come egli stesso dichiara: «Non sono un pazzo, sono un
imprenditore e non mi piace pagare». Insomma, Libero non paga
perché sa che quella concessione avrebbe decretato il fallimento della Sigma.
La sua azienda. Un'impresa a conduzione familiare con 100 dipendenti (tutte
donne) che produce biancheria intima.
Il giorno dopo la morte il
costituzionalista Guido Neppi Modona scrive su Repubblica: «Un cittadino qualsiasi, un galantuomo la
cui vita in un paese normale, non avrebbe dovuto correre o affrontare rischi di
sorta... . Fra tanti eroi che non lo sono, e si atteggiano tali, eccone uno che
lo è stato senza nemmeno sospettare, probabilmente, di esserlo... . Essere
galantuomini, sfidare - per normalità - la norma, sembra essere un fatto di
eroismo. Se, come diceva Brecht, una nazione che ha bisogno di eroi è una
nazione sventurata, Dio sa quanto possa esserlo la nostra, che ha bisogno di
eroi così atipici e che oltretutto ne ha così pochi».
Dimostrare la normalità di Libero è stato
il mio assillo. Forse ci sono riuscito perché a distanza di anni Gaetano
Savatteri nel suo I
siciliani (2005) conferma: «"Quel nome segna il destino dell'uomo: nato sotto
il segno di un assassinio, muore per affermare la propria libertà", dice
Marcello Ravveduto, nella biografia Libero Grassi. Storia di
un siciliano normale. La normalità, giustamente sottolineata da Ravveduto, è
quella di un siciliano borghese, cresciuto in una famiglia di commercianti con
frequenti relazioni all'estero, comodità domestiche, buone letture, saldi
principi laici, sufficiente disincanto da non credere al fascismo durante il
regime e per restare lontani dalla Dc e dal Pci nel dopoguerra».
E' stato un periodo intenso quello
vissuto a Palermo. Ho seguito Davide, il primogenito, in giro per la città. è
il mio Virgilio. Mi conduce per i gironi della "città infernale"
mostrandomi una realtà distante dalle apparenze. Incontro uomini e donne che
hanno conosciuto Libero. Gli amici del periodo radicale, i compagni delle lotte
pro divorzio e gli amministratori pubblici con cui ha condiviso battaglie di
legalità già negli anni '60. Dopo ogni incursione si rientra a casa Grassi in
via D'Annunzio. Lì mi immergo nella biblioteca di famiglia alla ricerca dei
suoi libri preferiti per carpire qualche pensiero. John Burns, Max Weber,
Guillaume Apollinaire, Ernesto Rossi, Marco Pannella, Rainer Maria Rilke, Guido
Gozzano, in ogni libro trovo un nesso legato alla sua vita e sul retro della
copertina una riflessione scritta di suo pugno.
Il mio lavoro da topo di biblioteca mi
conduce ad una preziosa scoperta: Libero ritraduce dal francese le poesie di
Apollinaire per leggerle alla figlia Alice. A pensarci bene è sintomatico: non
accetta la traduzione così come è resa perché lo costringe ad accreditare
un'interpretazione del testo che non sempre condivide. Comincio a capire. Il
suo indirizzo teorico, tra posa e poesia, è dominato dal desiderio della
libertà. E la mafia cos'è se non l'espressione di un potere tirannico che
annichilisce la libertà?
E' nato nel 1924. Un mese dopo la
scomparsa di Matteotti. Lo zio Peppino, socialista, impressionato dall'evento,
vuole a tutti i costi che quel nipote, figlio del fratello Arturo, si chiami
Libero. Una famiglia afascista che lo educa alla lettura e alla scrittura senza
censure. Da adolescente scrive novelle e gioca a pallacanestro. Nel 1942 la
famiglia si trasferisce a Roma presso la nonna materna. Libero s'iscrive alla
facoltà di Scienze Politiche. Nel 1943 inizia a frequentare l'università
dimostrando una palese avversione alla politica antisemita del nazifascismo.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre '43 decide di entrare in convento come seminarista.
Sceglie la strada della "clausura": si rifugia a S. Maria sopra
Minerva con l'appellativo di fra Mannes. La decisione non proviene da una
vocazione maturata nell'avversità della guerra, bensì dal ripudio morale di
combattere una guerra ingiusta. è un modo per sfuggire alla leva obbligatoria
della Repubblica di Salò che lo avrebbe costretto a lottare al fianco di
fascisti e nazisti. Liberata Roma dai nazisti, torna alla sua vita in famiglia
dove prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza.
Nel '50 sente l'impulso di andare al nord
per concretizzare le sue aspirazioni imprenditoriali. Ha l'opportunità di
mettere su un'azienda, con il fratello Pippo, a Gallarate: la MIMA (Manifattura
Maglieria ed Affini). Produrrà biancheria da donna, arrivando ad occupare circa
250 operai.
Negli anni vissuti in Lombardia Libero
frequenta il mondo dell'imprenditoria e, godendo di un discreto reddito, si
reca spesso al teatro. Nel '51 sposa in chiesa una bella ragazza di origine
palermitana. Dopo due anni si accorge di aver commesso un errore. Un'esperienza
che segnerà la sua vita. Il vero impedimento è l'impossibilità di chiedere il
divorzio. Fa di tutto per annullare il matrimonio. Ci riesce, ma tra mille
difficoltà.
Nel 1954, privo di legami coniugali,
torna a Palermo. Ritrova Pina Maisano, architetto, che ha conosciuto durante
gli anni dell'adolescenza, i due si sposano rigorosamente con rito civile.
Prendono casa in Via D'Annunzio, un appartamento al sesto piano con un
bellissimo terrazzo. «la
terrasse de ma maison, oui, c' est là que je retournerais au frais de l'ètè».
Così scrive in una poesia dedicata al figlio Davide negli anni Settanta mentre
sembra allontanarsi sull'onda della contestazione.
Gli anni Cinquanta sono anni
"eroici". è continuamente in viaggio per l'Italia con la sua auto,
una Fiat 1400, alla ricerca dei tessuti più idonei alla sua produzione.
Comincia a sviluppare concretamente la sua passione politica. Frequenta il
gruppo dei Radicali, recandosi spesso a Roma nella redazione del Mondo o dell'Espresso. Nel frattempo
si cimenta a scrivere articoli politici per i giornali locali, tra cui Cronaca di Sicilia, dove
caldeggia l'operazione Milazzo e l'ingresso del Partito Socialista nella
maggioranza parlamentare. Ben presto, partecipando attivamente alla vita
politica del PRI, viene nominato dal partito in seno al consiglio di
amministrazione dell'azienda municipalizzata del gas. Libero, insieme al
consigliere socialista Ballerini, preme affinché la rete pubblica del metano
sia estesa ai nuovi quartieri popolari. Infatti, si è accorto che alcune
società private, in odore di mafia, impediscono la realizzazione della rete
perché hanno monopolizzato la vendita di bombole del gas.
Negli anni Settanta subisce fortemente il
distacco generazione dei figli. Ma con tenacia cercherà di comprendere le loro
ragioni finché si ritroveranno uniti nell'impegno pubblico a favore del
divorzio. Un tema a cui Libero naturalmente è sensibile.
Tra la fine del 74 e l'inizio del 75,
Grassi avvia una nuova avventura imprenditoriale che non avrà il dovuto
successo. Grazie ad un brevetto israeliano costituisce la "Solange
impiantistica" con lo scopo di utilizzare l'energia solare per produrre
energia elettrica. I tempi purtroppo non sono ancora maturi. L'azienda, pur essendo
formalmente costituita, non inizierà mai a lavorare.
Nel '79 i vecchi locali della SIGMA
vengono venduti dalla proprietà (un'immobiliare milanese) ad un costruttore
palermitano. Libero è costretto a lasciare quella sede, per cercarne un'altra.
Trova una sede di 2000 metri quadrati in Via Thaon di Revel. Questo
trasferimento di sede, segna l'inizio di una serie di difficoltà economiche e
sociali per la conduzione dell'azienda di famiglia. Alla metà degli anni '80
deve affrontare una controversia creditizia con il Banco di Sicilia. Secondo i
calcoli di Libero la banca applica tassi interessi usurari. Si affacciano,
inoltre, le prime avvisaglie criminali. Riceve una telefonata in cui si
minaccia la sua incolumità personale se non pagherà una certa somma a due
emissari della mafia. Libero rifiuta di pagare. La conseguenza sarà il
rapimento di Dick, il cane lasciato a guardia degli stabilimenti della SIGMA.
Gli sarà restituito dopo qualche giorno in fin di vita.
Passano alcuni mesi e l'azienda è
protagonista di un altro episodio criminale: due giovani a volto scoperto
tentano di rapinare le paghe dei dipendenti della fabbrica. Saranno
identificati e arrestati grazie ad alcuni dipendenti. Ma in cuor suo Libero sa
che è solo l'inizio. L'azienda, collocata al terzo posto nel settore della
pigiameria italiana, con un fatturato di sette miliardi, non può non suscitare
gli appetiti dei malavitosi palermitani.
Così si giunge al 1991. Gli ultimi mesi
della sua vita sono conosciuti anche grazie alla diffusione in rete di filmati
e Documenti. Ma c'è un aspetto che spesso viene sottovalutato. Dopo l'omicidio
di Libero Grassi matura una nuova consapevolezza nella società italiana: mafia
e disimpegno sono intimamente collegate. L'Eurispes nel 1992 segnala una
crescita del desiderio di non arrendersi, di combattere, di restituire dignità
al rapporto tra cittadini e comunità nazionale. Il 29 agosto del 1991, secondo
l'istituto di ricerca, nasce una figura imprevista, destabilizzante per la
mafia e per lo Stato che la combatte: la figura dell'eroe. Un eroe diverso da
quelli belli, prepotenti e rampanti celebrati nei film, nelle riviste patinate
e persino dai partiti politici degli anni Ottanta. Un eroe, privo di
particolari superiorità, che smaschera la pochezza dei finti eroi, paladini del
lusso, cultori dell'immagine ed esperti della comunicazione di massa. Uomini e
donne normali il cui rigore morale individuale diviene, nella latitanza di
personaggi pubblici carismatici, punto di riferimento sostanziale a cui affidare
la difesa del bene comune, in ragione di una crisi istituzionale, politica e
criminale, iniziata negli anni del cosiddetto "riflusso" e che, agli
inizi degli anni Novanta, diventa emergente. La morte di Libero Grassi, con la
sua dirompente solitudine, sembra essere l'ostacolo insormontabile contro il
quale inconsapevolmente sbatte la mafia perché costringe le istituzioni ad un
meccanismo di risposta. «Quella
morte - scrive l'Eurispes - ci fa capire che non tutto è perduto se esistono
ancora persone capaci di sacrificarsi per un principio, per dei valori».
La morte di Libero Grassi genera una
prima cesura: i media impiantano la visione eroica del supplizio mafioso.
Il martire è
un uomo solo che denuncia pubblicamente lo «scandalo» di un popolo, avviandosi
inevitabilmente verso la morte. «Gli
altri, tutti, erano lì accanto umiliati dalla prepotenza, soffocati dalla
sfiducia, strangolati dal terrore, lui avrebbe gridato con quanto fiato aveva
in gola: "niente da fare, non pago. E faccio di più: denuncio"».
Libero Grassi diventa inconsapevolmente
l'immagine della Sicilia che si ribella, l'uomo che abbatte il muro
dell'omertà. La fermezza della sua denuncia, motivata dalla ragione più che dal
sentimento, suscita un notevole clamore mediatico: per la prima volta la mafia
si presenta come un nemico che può essere sconfitto.
(*) Marcello Ravveduto: Ricercatore di Storia contemporanea
presso l'Università degli Studi di Salerno. Studia da diversi anni la
modernizzazione delle mafie. Ha scritto per l’Ediesse la biografia
dell'imprenditore palermitano, "Libero Grassi. Storia di un siciliano
normale" (1997), "Le strade della
Violenza" (2006) con la casa editrice l’ancora del mediterraneo
(vincitore Premio Napoli per la saggistica), "Napoli… Serenata
calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema sceneggiata e
neomelodici" (2007) pubblicato dalla Liguori editore. Ha vinto nel
2005 il Premio Nazionale Marcello Torre per l’impegno civile. È presidente
dell’associazione antiracket "Coordinamento Libero Grassi".
https://www.premioliberograssi.com/index.php/it/libero/biografia
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