L’era del
petrolio
Il modello
del petrolio
Vi sono
evidenti ragioni per considerare l’inizio del 21°
sec. come ancora appartenente all’era del petrolio, ossia al periodo nel quale
il sistema economico e sociale si fonda sull’utilizzo degli idrocarburi
(petrolio e gas naturale). Le attività umane continuano infatti in massima parte
a essere basate proprio sull’uso di queste fonti fossili: non soltanto per la
produzione e il trasporto di beni e servizi, ma anche per il comfort nelle
abitazioni e durante il tempo libero. La stessa struttura decentrata delle
città moderne, basata sulla mobilità individuale, è stata resa possibile, come
il comfort domestico, dal prezzo relativamente basso dei prodotti petroliferi e
dell’elettricità. Il modello degli idrocarburi è perciò divenuto un modello
totalitario. In esso, le altre fonti di energia hanno un’importanza, se non
proprio marginale, certamente secondaria, anche se il carbone dà un contributo
importante alla produzione di elettricità e di acciaio.
Questo
modello totalitario è ad altissima produttività, per varie ragioni. La mobilità
a basso costo ha ridotto i costi della produzione di beni e servizi, ha
aumentato la produttività dei singoli e delle imprese, e quindi il reddito. La
petrolchimica ha immesso sul mercato un gran numero di nuovi prodotti e ha
ridotto il prezzo di quasi tutti quelli già esistenti. La produzione di
elettricità ha ridotto i propri costi, prima grazie all’olio combustibile e poi
al metano. Da ultimo, la spesa per l’uso dell’energia da destinare al comfort
domestico ha finito per costituire una parte modesta del costo della vita e
quest’uso si è così potuto diffondere anche tra i meno abbienti. Lo sviluppo
dell’economia mondiale avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale e quello più
recente dei Paesi asiatici non sarebbero stati così rapidi senza il sistema
fondato sugli idrocarburi.
Quello del
petrolio è un modello dinamico che si è diffuso in un tempo relativamente
breve, prima negli Stati Uniti, poi in Europa e infine in tutto il mondo. Di
recente, la sua forte vitalità ha contribuito ad avviare processi di industrializzazione
e di sviluppo in aree che erano ancora lontane dall’economia moderna,
migliorando la loro condizione, ma aumentando la domanda di risorse – non solo
di energia – che sono per loro natura finite. Negli ultimi anni, il modello
elettronico, che favorisce l’aumento della produttività, si è combinato
efficacemente con quello petrolifero, essendo questo costitutivamente un
sistema mobile. Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione personalizzati e di
reti che coprono ormai una larga parte del mondo ha fatto della combinazione
fra alta mobilità fisica, basso costo dell’energia e facilità di comunicazione
una caratteristica primaria del sistema economico e sociale moderno.
Carbone e
petrolio: confronto tra modelli
Quando,
agli inizi della seconda metà del 19° sec., le prime
rudimentali perforazioni negli Stati Uniti portarono alla scoperta di
giacimenti petroliferi, il petrolio non aveva ancora un vero mercato, se non
forse quello dell’illuminazione. Sin dall’inizio della rivoluzione industriale,
era il carbone la fonte di energia dominante per gli usi domestici e
industriali: esso costituiva infatti il combustibile per caldaie, impianti
industriali e mezzi di trasporto (treni e navi), e da esso veniva il gas per
l’illuminazione, il riscaldamento domestico e la cottura dei cibi. Il carbone
veniva mandato alle cokerie (che producevano coke per l’acciaio) e alle
officine del gas (che producevano il gas distribuito con reti nelle città); il
gas era inviato anche agli impianti di sintesi per produrre derivati chimici.
Le ricerche sui derivati del carbone portarono già alla metà del 19° sec. alle prime produzioni di coloranti e medicinali
sintetici.
È opportuno
confrontare il sistema del carbone con quello del petrolio. Nel sistema del
petrolio, greggio e gas fuoriescono dai pozzi; il greggio va (per oleodotto e
per nave) alla raffineria, dove si ottengono carburanti per il trasporto,
combustibili, nonché basi per i lubrificanti e virgin naphta; quest’ultima, con una parte del
gas prodotto assieme al greggio, alimenta gli impianti di cracking che producono
gli intermedi petrolchimici. Nel gas estratto, assieme al greggio, vi è il
metano (prodotto anche da pozzi a solo gas) che, trasportato per metanodotto o
per nave refrigerata, è un combustibile e un carburante, nonché una materia
prima per la petrolchimica.
Il
confronto tra i due sistemi permette di evidenziare significative e rilevanti
differenze. Per produrre un manufatto nel sistema del carbone, per es. un tubo,
si comincia dalle miniere di carbone e di ferro. Una parte del carbone è
inviata alle cokerie, e i sottoprodotti sono indirizzati verso le industrie
chimiche; il ferro viene mandato alle industrie metallurgiche, assieme al coke
(donatore di carbonio all’acciaio e di calore) e al gas (combustibile). Poiché
il carbone è un concrezionato pesante e di grande volume per unità di peso, il
suo trasporto risulta costoso, e le filiere industriali si localizzano presso
le miniere, lungo un’integrazione verticale
(carbone-coke-ferro-acciaio-industria meccanica) che implica grandi imprese,
macchine ingombranti e pesanti, fabbriche di notevoli dimensioni e l’apporto di
numerosi lavoratori. Rispetto al carbone, il vantaggio del petrolio non è
soltanto il minor costo di produzione, ma anche la maggiore semplicità e la linearità
del suo sistema: non vi è bisogno di un altro materiale per realizzare un
manufatto. L’industria è più leggera, gli impianti sono più piccoli, meno
inquinanti, richiedono minore capitale e meno lavoratori per chilo di prodotto;
l’industria si può disperdere nel territorio, perché trasportare petrolio costa
relativamente poco. Si comprende pertanto come il convertitore siderurgico,
l’impianto chiave dell’industria del 19° sec., sia
stato sostituito dal cracker e
dalla polimerizzazione, che produce polimeri soffiabili, pressurizzabili e
confezionabili in qualunque foggia e in una miriade di prodotti finiti. Il
carbone è stato sostituito con petrolio ed elettricità. L’avvento del motore a
benzina ha rivoluzionato i trasporti terrestri e marittimi, rendendo possibile
il trasporto aereo e favorendo la struttura decentrata delle città moderne. Il
petrolio ha determinato in questo modo un sistema economico e sociale che, alla
fine del 20° sec., si è diffuso nei Paesi ricchi
come in quelli poveri. Non vi è oggi Paese al mondo privo di automobili,
trattori o autocarri con motori a benzina o a gasolio. Il petrolio è diventato
il prodotto trasportato in maggiore quantità nel mondo e la sua produzione si
misura in miliardi di tonnellate all’anno.
L’industria
petrolifera e la formazione del prezzo
L’industria
mineraria
Le attività
di esplorazione e di produzione sono il cuore dell’industria petrolifera, il
settore in cui si sviluppano e si impiegano le tecnologie più avanzate e da cui
provengono i maggiori profitti, a compenso del rischio minerario. Oltre al
rischio tecnico, consistente nell’evenienza che la struttura geologica
individuata non contenga idrocarburi o ne contenga in quantità non commerciale,
vi è quello economico, definito dalle possibilità che al momento dell’entrata
in produzione, anni dopo la scoperta, il prezzo del greggio renda il nuovo
giacimento non profittevole. La scoperta di un nuovo giacimento, la definizione
della sua capacità produttiva e il suo approntamento per la produzione
richiedono investimenti importanti e tempi lunghi, durante i quali il prezzo
del petrolio può cambiare più volte. Le imprese prendono perciò le loro
decisioni in funzione di prezzi
ombra, che sono basati sulle previsioni per il futuro e che possono
essere maggiori o minori del prezzo reale. Le spese di ricerca vera e propria,
per il margine di rischio che le caratterizza, devono essere coperte con
capitale proprio e non sono ammortizzate. Dopo la scoperta, i progetti per
sviluppare il campo, metterlo in produzione e raggiungere il mercato possono
essere realizzati con capitali di prestito, e ciò ha dato luogo a importanti
esempi di project financing.
Negli anni
Ottanta il costo di produzione di un barile di greggio risultava vicino
ai 20 dollari. A partire da allora iniziò un
periodo di riduzione del costo grazie all’introduzione di nuove tecnologie,
come la perforazione di pozzi orizzontali; questi infatti attraversano tutta
l’area del giacimento e non soltanto il suo spessore (ognuno di essi produce
come parecchi pozzi verticali). La tabella 1 mostra
una stima della ripartizione del valore di un barile di greggio nel 2004, 2006 e 2010; idati si riferiscono alla produzione petrolifera di
una major in
un Paese produttore, con un rapporto contrattuale di production sharing agreement,
in cui il valore della produzione è ripartito tra il Paese produttore e la
compagnia petrolifera. La tabella permette di apprezzare l’incidenza dei costi
tecnici, che in termini percentuali è rimasta costante, intorno al 32%; in valore assoluto tali costi sono tuttavia saliti
da 12 dollari al barile nel 2004 a oltre 26 nel 2010,per la crescita del costo delle attrezzature (e in
generale dei macchinari), per l’aumento delle complessità tecniche e anche per
la debolezza del dollaro. Sul valore della produzione gravano, inoltre, le
imposte dovute ai Paesi produttori, salite in percentuale (dal 36% del 2004 a oltre il 42% del 2010) e in valore assoluto
(dai circa 13 dollari del 2004 ai 34 del 2010).
Va
precisato che il costo di produzione è legato anche alla profondità dei pozzi e
alla complessità dell’approntamento per la produzione; negli ultimi anni si è
sviluppata la produzione di olio e di gas in giacimenti sottomarini situati a
profondità sempre crescenti, che richiedono quindi di porre le strutture di
sfruttamento del pozzo a profondità anche rilevanti. La relativa tecnologia ha
permesso di sfruttare giacimenti altrimenti irraggiungibili soltanto pochi anni
prima, che hanno però un costo di produzione notevolmente più alto della media.
Il
progresso tecnologico si basa sull’esigenza di ridurre i costi e aumentare la
produzione, e anche sulla necessità di lavorare in aree relativamente marginali
rispetto alle grandi aree produttrici. Poiché le grandi compagnie private
internazionali non sono sempre ben accette nei Paesi produttori, che preferiscono
invece operare attraverso le loro compagnie nazionali, esse devono lavorare
nelle aree disponibili, che non sono necessariamente le migliori.
Il
funzionamento dell’industria mineraria è a grandi linee lo stesso di un tempo;
tuttavia oggi si può identificare un giacimento con grande precisione, in tre e
addirittura in quattro dimensioni (cioè aggiungendovi quella temporale), con
riduzione dei costi e, di contro, aumento della complessità del sistema.
La
redditività di un giacimento è infine definita dalla qualità del greggio, che
non è un prodotto omogeneo: ogni giacimento offre, infatti, un greggio diverso.
Esistono varie classificazioni: le più semplici e più importanti sono quella
che distingue fra greggi
leggeri e pesanti e
quella che suddivide i greggi
solforosi (detti acidi)
dai dolci. I
greggi dolci e leggeri valgono di più, perché in raffineria producono un’alta
percentuale di sostanze leggere, cioè GPL (Gas
di Petrolio Liquefatto), virgin
naphta e benzina. Quelli pesanti e acidi, che possono avere un
prezzo minore rispetto ai primi anche di diversi dollari al barile, producono
una quantità maggiore di combustibili, olio combustibile e gasolio pesante, e
richiedono una desolforazione.
I
giacimenti di petrolio greggio producono quasi sempre anche una certa quantità
di gas associato, costituito da una miscela di vari gas: fino al 70% di metano, e poi gas diversi, principalmente etano, propano
e butano. I gas vengono separati, iniziando dal metano, che è un eccellente
combustibile e si separa facilmente dal petrolio e dagli altri gas, e
proseguendo con questi ultimi, che richiedono operazioni più complesse. L’etano
è la migliore materia prima per produrre etilene in un cracker petrolchimico.
Propano e butano sono anch’essi buone cariche petrolchimiche, ma essendo
facilmente liquefacibili, contrariamente al metano e all’etano, vengono anche
venduti per uso termico domestico, in bombole o nelle reti urbane. Negli Stati
Uniti, o in Arabia Saudita, il volume complessivo del gas associato prodotto
insieme al greggio rappresenta circa il 10% del
volume del greggio. Il recupero di questi gas ha permesso di abbandonare l’uso
di bruciare in torcia i gas associati (flaring),
che recava grave danno all’ambiente e sprecava una risorsa importante. In molte
aree del mondo vi sono inoltre giacimenti di gas secco, cioè di metano con
scarsa presenza di prodotti liquidi, come quelli della Valle Padana.
Una volta
scoperto e messo in produzione il giacimento, l’aumento della sua produzione
richiede costi addizionali quasi nulli: il costo marginale della produzione di
greggio è cioè quasi zero, per cui le imprese tendono ad aumentare la
produzione. Tale propensione favorisce l’alternanza tra periodi di intensa
concorrenza, seguiti dall’istituzione di un controllo della produzione, come
la proration adottata
negli Stati Uniti negli anni Trenta, oppure la concentrazione dell’attività in
grandi imprese, capaci di graduare la produzione e forgiare il mercato in
oligopolio stretto.
Il mercato
del greggio
Il prezzo
del greggio venne inizialmente ricavato, ai fini del calcolo delle royalty (le
somme dovute alla casa reale o allo Stato come loro parte del greggio prodotto,
commisurate ai profitti della compagnia ricavati dal giacimento), dal prezzo
offerto negli Stati Uniti (un’area ad alto costo) dalle grandi raffinerie ai
produttori indipendenti. Con il grande shock petrolifero del 1973, l’OPEC (Organization
of the Petroleum Exporting Countries, che raccoglie tra l’altro
tutti i principali Paesi produttori del Medio Oriente tranne l’Omān) decise di
avocare a sé sia il volume di produzione sia il prezzo, per mantenere il primo
più basso possibile e più alto il secondo, aumentando così la quota del Paese
produttore. Nel 1985 il prezzo crollò per la
decisione dell’Arabia Saudita di legare il proprio greggio al Brent del Mare
del Nord. In precedenza, durante il periodo di formazione del mercato del
petrolio greggio, lo sviluppo del mercato spot (attraverso cui singole navi
erano vendute on the spot,
cioè nel punto in cui si trovavano, e poi dirottate verso questo o quel
compratore) aveva consentito ai Paesi produttori di valutare se il prezzo OPEC
rispondesse effettivamente al rapporto corrente fra la domanda e l’offerta. Al
momento del crollo del prezzo, il mercato spot fornì le basi per il passaggio
al mercato dei futuri, lo scenario attuale. Il mercato dei futuri, da cui ancor
oggi viene fissato il prezzo, è basato su due greggi leggeri, il West Texas
intermediate e il Brent, che rappresentano una piccola percentuale della
produzione globale. Su questo mercato agiscono compratori e venditori, alcuni
interessati al prodotto, ma in grande maggioranza speculatori, che comprano o
vendono sul futuro, cioè con un prezzo pattuito per consegna fissata dopo
determinati giorni, mesi o anni. Queste partite sono rinegoziate un numero
quasi infinito di volte, e raramente diventano liquide: il mercato dei futuri
realizza un enorme numero di transazioni (in un giorno di mercato si scambia in
teoria più dell’intera produzione petrolifera di un anno) e rappresenta un’area
importante per capitali di rischio alla ricerca di un impiego remunerativo. Per
es., un calo del rendimento dei titoli di Stato o delle obbligazioni produce un
flusso di capitale che esce da quei titoli ed entra nei futuri petroliferi,
producendo un aumento della domanda, anche se fittizia, e quindi del prezzo. Il
mercato del greggio è oggi un mercato speculativo estremamente sensibile alle
più piccole variazioni delle aspettative dei singoli negoziatori, che molto
spesso rispondono alle aspettative non tanto del mercato petrolifero quanto di
quello finanziario.
Pertanto le
compagnie petrolifere, grandi e piccole, non gestiscono più il mercato del
greggio, e sono price
takers, non più price
makers. Lo stesso dicasi dell’OPEC, che tuttavia controlla il
volume della produzione. Per le compagnie, una parte del loro profondo
cambiamento si sostanzia nel fatto che hanno abbandonato il concetto di
integrazione, ridotto la loro presenza nei settori meno determinanti, come il
trasporto e la raffinazione, e anche per ciò che riguarda la gestione del
greggio sono ormai dipendenti dal mercato. Esse hanno concentrato gli
investimenti nel settore minerario, ma anche qui preferiscono utilizzare i
servizi di terzi, che non richiedono immobilizzi di capitale ma solo costi
correnti. La tendenza alla riduzione dei costi fissi in favore di quelli
variabili si è verificata anche nelle attività di ricerca e produzione mediante
il rapido sviluppo delle imprese di servizi tecnici che realizzano praticamente
tutte le operazioni, lasciando alle compagnie solo le funzioni decisionali e i
negoziati con i Paesi produttori. In pratica, ogni compagnia petrolifera
controlla il sistema di lettura per via elettronica di tutte le linee sismiche
(sistema play-back)
del proprio archivio, aumentando così la capacità di scoprire nuovi giacimenti.
Nel mercato petrolifero, le compagnie operano spesso attraverso traders, venditori e
compratori, i quali hanno una posizione di indipendenza e sono un autonomo
centro di profitto dentro l’impresa. Essi hanno la possibilità di vendere anche
tutta la produzione, scegliendo la possibilità più conveniente dal punto di
vista del profitto per ottenere ciò che serve alla società per la raffinazione
e la distribuzione dei prodotti. Le società partecipano al mercato dei futuri
come qualsiasi altro operatore, e la tendenza alla professionalizzazione
dei traders le
ha influenzate al punto che si comportano allo stesso modo delle grandi
organizzazioni finanziarie e bancarie operanti sul mercato dei futuri.
Le compagnie
sono cambiate anche nel loro rapporto con i propri azionisti. Esse temono le
scalate dei gruppi finanziari, e per evitare tale eventualità pagano dividendi
piuttosto alti e ricomprano proprie azioni per tenerne alto il valore. Una
serie di fusioni ha ridotto il numero delle grandi compagnie aumentandone le
dimensioni, un obiettivo perseguito da un lato per ridurre i costi e dall’altro
per rendere più costose le possibili scalate.
Accanto
alle majors, vi
sono le imprese di Stato (dette NOC, National
Oil Companies) che producono in proprio nei Paesi ove il petrolio è
nazionalizzato. Esse collaborano con le compagnie petrolifere sulla base di
accordi complessi di ripartizione della produzione, e forniscono un contributo
decisamente rilevante alla produzione mondiale (tab. 2;
per completezza, ai dati della tabella andrebbero aggiunte le quantità
spettanti alle NOC in base agli accordi con le compagnie private, che però sono
variabili e difficilmente stimabili con esattezza).
All’inizio
del 21° sec. si sono verificati fortissimi aumenti
di prezzo, prima con un passaggio da 30 a 40 dollari al barile fra il 2003 e
il 2004, poi con una continua crescita, fino a 140 dollari nell’estate del 2008,
per ricadere successivamente a 40 dollari nel
febbraio 2009 e risalire a 80 un
anno dopo (dati OPEC). Le cause di questi aumenti e della volatilità del prezzo
sono legate sostanzialmente al sistema dei futuri. Vi sono stati timori di
scarsità e afflussi di denaro speculativo proveniente da altre aree del mercato
finanziario: la combinazione di questi due fenomeni, più la scarsa capacità di
raffinazione negli Stati Uniti, ha indotto gli operatori a previsioni negative
sull’offerta di greggio e di prodotti, e ha provocato quindi l’aumento dei
prezzi, determinando una straordinaria crescita dei profitti delle compagnie e
una forte riduzione della domanda (soprattutto in Europa e Giappone, ma anche,
per un periodo più breve, negli Stati Uniti). Nell’aumento dei prezzi hanno
giocato un ruolo rilevante anche la caduta del dollaro rispetto all’euro e alla
sterlina e l’aumento delle tasse dei Paesi produttori. L’aumento viene
giustificato con l’argomentazione che può favorire l’ingresso sul mercato dei
cosiddetti petroli non convenzionali, ottenuti dalle sabbie petrolifere o dagli
scisti bituminosi venezuelani o canadesi che si ritengono necessari per
sostenere l’offerta, ma hanno costi di produzione molto più elevati del greggio
prodotto dai giacimenti ora in funzione.
Le altre
fasi dell’industria
Il trasporto avviene in
primo luogo per mare. I sistemi di condotte si sono affermati come metodo
efficiente di trasporto, via mare e via terra, sia per olio sia per gas, e sono
in concorrenza con il trasporto con nave. Le navi petroliere sono oggi di
dimensioni molto grandi (300.000 t
e oltre), e sono capaci di percorrere a costi bassi anche le rotte più lunghe.
Il costo di trasporto si è quindi ridotto: esso era rilevante quando il greggio
costava pochi dollari, ma non lo è più con i prezzi che si sono registrati
dalla crisi petrolifera del 1973 in poi. Le
compagnie petrolifere sono quasi completamente uscite dal settore, e usano navi
di terzi, talvolta noleggiate per molti viaggi. Il trasporto del greggio e dei
suoi sottoprodotti ha una forte valenza ambientale, in quanto la nave è a maggior
rischio di inquinamento: anche nel raro caso di incidente, un oleodotto può
essere riparato molto rapidamente, mentre il sinistro di una nave è più
difficile da gestire. In ogni caso, le implicazioni ecologiche e ambientali del
trasporto hanno portato a regolamenti molto restrittivi: i porti specializzati
e le navi petrolifere hanno dovuto attrezzarsi con sistemi di controllo
dell’inquinamento che hanno causato un aumento del costo complessivo del
trasporto.
La raffinazione avviene in
un complesso industriale (raffineria), ove il greggio è in primo luogo lavorato
da un impianto di raffinazione a pressione atmosferica chiamato topping. I suoi prodotti
(GPL, virgin naptha,
benzina, gasolio, olio combustibile, bitume) vengono lavorati in una serie di
impianti a cascata, detti secondi o terzi, che massimizzano il
prodotto più richiesto dal mercato e conferiscono le qualità richieste sul
piano dell’efficienza e della riduzione dell’inquinamento. Poiché la
concorrenza del gas e del carbone ha ridotto la domanda di olio combustibile,
la raffinazione tende a limitare al minimo le frazioni pesanti, e il residuo
finale viene bruciato per produrre energia elettrica. Dopo il topping, si usano i reformers per
l’idrogenazione della benzina, gli impianti sottovuoto per il gasolio e quelli
per la desolforazione, fino agli impianti di cracking per massimizzare le frazioni
leggere. Spesso vi sono impianti per additivi ottanizzanti e impianti di cracker petrolchimico. Le
raffinerie moderne trattano tutti i tipi di greggio, ma, per ottenere una
quantità di benzina in percentuale non rilevante, si può utilizzare greggio
leggero in minor quantità di quello pesante, e dunque con costi minori. Le
raffinerie che riforniscono quei mercati la cui domanda è soprattutto di
benzina, come quello degli Stati Uniti, preferiscono comunque trattare greggi
leggeri, che costano di più ma hanno maggiore resa in benzina. In Europa,
invece, la motorizzazione si è mossa decisamente verso l’uso del gasolio, per
aumentare la percorrenza per litro di carburante e ridurre così i consumi
complessivi. Ciò permette anche l’uso di greggi più pesanti, e meno costosi.
Negli Stati Uniti vi è scarsa capacità di raffinazione, dovuta anche al fatto
che alcune fra le grandi compagnie hanno ceduto una buona parte dei propri
impianti a produttori non integrati. La forte domanda di benzina ha quindi
prodotto un aumento (paradossale, dato il maggiore costo di trasporto)
dell’esportazione di benzina dall’Europa verso gli Stati Uniti, dove la benzina
deve poi essere confezionata per rispondere alle diverse regole ambientali dei
vari Stati. Questa varietà di norme ha ulteriormente ridotto la capacità di
raffinazione, e ha accentuato la tensione sull’offerta di prodotti petroliferi,
rimbalzata poi sul prezzo del petrolio greggio.
La distribuzione è
l’attività che mette in contatto l’impresa petrolifera con il mercato e i suoi
consumatori e che consente di ottenere la migliore qualità dei prodotti e la
totale copertura del mercato, anche in quelle aree che risultano meno favorite.
I prodotti
petroliferi sono distribuiti capillarmente in tutto il mondo: non vi è Paese,
per quanto sperduto, ove questa attività non abbia luogo. La forma di mercato è
un oligopolio stretto, con imprese leader a livello mondiale e concorrenti locali
o parziali. La concorrenza fra marche è relativamente scarsa, anche se vi sono
delle differenze qualitative fra i prodotti. Di recente si è diffusa in Europa
e negli Stati Uniti la vendita di carburanti presso i supermercati creando così
una forma di concorrenza. Il costo della distribuzione è dovuto soprattutto
alla logistica, cioè al trasporto dei prodotti su strada, che richiede una
costosa rete di depositi. Inoltre, le singole stazioni di servizio sono spesso
gestite con contratti di comodato e di utilizzo di impianti non di proprietà
del gestore. Questo comporta spesso condizioni di subalternità, rendendo i
gestori simili a dipendenti aziendali, disponibili quindi a usare sistemi di
tipo sindacale per aumentare il proprio reddito.
La petrolchimica è strettamente
integrata all’industria petrolifera: la maggioranza delle compagnie petrolifere
opera in entrambe. Il suo impianto di base, lo steam cracker, produce gli intermedi
petrolchimici (etilene, propilene, miscela C4 e
benzina pirolitica), da cui si ottengono, con la polimerizzazione o con altri
procedimenti, beni intermedi e finiti in enorme quantità. I polimeri hanno
grande flessibilità, possono essere lavorati in tutti i modi possibili e hanno
vantaggi di peso, durata e flessibilità che i metalli raramente eguagliano. Il
prezzo del polimero per unità di peso o di volume è basso perché l’industria è
fortemente concorrenziale; l’industria degli oggetti di plastica si è perciò
sviluppata fino ad assumere dimensioni paragonabili a quelle dell’industria meccanica.
La diffusione della plastica, infatti, ha ridotto drasticamente il peso degli
oggetti – quello delle automobili è meno della metà di quello che era
trent’anni fa – e ha creato la possibilità di confezionare i prodotti
alimentari con la plastica trasparente, che li tiene freschi più a lungo e ne
facilita il trasporto, rendendo possibile l’affermazione della grande
distribuzione.
La tendenza
alla specializzazione delle imprese non ha svalutato il legame con la materia
prima, soprattutto negli Stati Uniti, dove l’etano è la principale carica
petrolchimica e gli impianti sono concentrati nell’area del Golfo del Messico,
dove vi è una forte produzione di greggio e sono frequenti i duomi salini
sotterranei in cui è possibile stoccare gas come l’etano o l’etilene. Anche in
Europa vi è stretta integrazione con la raffinazione che produce virgin naphta, ossia la carica
per il cracker in
assenza di etano. L’integrazione della petrolchimica con l’industria
petrolifera ha poche eccezioni, fra cui principalmente l’Arabia Saudita, dove
l’impresa petrolchimica, cresciuta ormai a livello mondiale, è separata da
quella petrolifera.
Il metano
Il metano,
principale componente del gas naturale, è entrato in scena a livello mondiale
relativamente tardi, dopo il primo shock petrolifero. Considerato un tempo
dalle imprese petrolifere fuori dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi europei un
prodotto senza mercato (un pozzo a gas era considerato l’equivalente di una
ricerca fallita), costituisce oggi un’importante fonte di energia, più adatta
per gli usi termici dei prodotti petroliferi, essendo più puro, meno inquinante
e di miglior combustione. Le riserve mondiali di metano sono molto ampie, e la
produzione è ormai salita a livelli alti, comparabili a quelli del petrolio,
pur se comunque inferiori (tab. 3). Le riserve note
sono ripartite geograficamente in modo molto diverso da quelle del greggio:
nel 2008 (ENI 2008),
più del 55% era localizzato in tre Paesi, Russia (26,3%), Irān (14,7%)
e Qaṭar (14,0%). Le riserve dell’Irān e del Qaṭar sono ancora scarsamente utilizzate, e il rapporto
riserve-produzione di questi Paesi è di qualche
secolo, mentre quello della Russia era nel 2006 di 76 anni. Il commercio internazionale del gas è ancora
relativamente poco sviluppato: il 26% della
produzione mondiale nel 2005, con il 70% delle esportazioni avvenuto via metanodotto e il resto per
nave refrigerata. L’Europa è il maggiore importatore del mondo: i suoi Paesi
più interessati a tale commercio (Germania, Italia, Francia, Spagna, Belgio,
Austria) hanno importato nel 2007 oltre 270 miliardi di m3, un valore più che doppio di quello
degli Stati Uniti (poco più di 130 miliardi); i
dati evidenziano il livello ancora modesto dell’uso delle navi refrigerate
(tab. 4). Il mercato del metano è molto diverso da
quello dei prodotti petroliferi. Esso è infatti venduto al consumatore finale
alla bocca di un metanodotto, e pertanto i rapporti contrattuali fra impresa
fornitrice e cliente sono diversi da quelli relativi ai prodotti petroliferi, e
simili a quelli dell’energia elettrica: il gas, così come l’elettricità, viene
commercializzato con formule tariffarie miste, che tengono conto sia della
quantità di energia effettivamente venduta sia della potenza richiesta, cioè il
volume massimo di energia richiedibile. In futuro, il gas sarà destinato a
svolgere un ruolo di crescente importanza, e si prevede possa diventare il
massimo fornitore di energia termica.
Negli
ultimi anni del 20° sec. e, con maggior forza,
nei primi anni del successivo, si è sviluppato il trasporto per nave di gas
liquefatto a bassissima temperatura che ha creato un nuovo mercato simile a
quello spot per il greggio, molto più concorrenziale e più sensibile ai
mutamenti dell’equilibrio fra domanda e offerta.
Gli aspetti
limitativi del modello petrolifero
Il modello
del petrolio presenta tre aspetti che potrebbero rivelarsi limitativi:
l’aumento del costo e del prezzo; il prevedibile esaurimento delle riserve; il
problema della sostenibilità ambientale.
Nel
definire il modello del petrolio si è fatto riferimento alla sua competitività
con il carbone; tuttavia, come già detto, agli inizi del 21°
sec. il prezzo del greggio ha avuto un’impennata, superando notevolmente
l’aumento del reddito dei consumatori. Ne consegue, quindi, che oggi l’uso del
petrolio richiede una maggiore capacità di acquisto da parte dei consumatori. È
possibile che questa non sia una condizione transitoria, a causa
dell’ipotizzabile futuro aumento dei costi dei nuovi giacimenti, il che farebbe
perdere definitivamente al petrolio il suo ruolo di risorsa a buon mercato.
Il secondo
punto è legato al primo. Il modello del petrolio è basato sull’utilizzo di
risorse naturali che non sono ricostituibili. Non è, infatti, possibile
ricostituire i giacimenti esauriti, benché la tecnologia già in atto possa
‘ringiovanire’ anche più volte i giacimenti, ma a costi crescenti.
La quantità
di idrocarburi consumata si può quindi compensare principalmente trovando altri
giacimenti, cioè sviluppando l’esplorazione. Sembra comunque vi debba essere un
limite, poiché anche queste risorse dovranno necessariamente esaurirsi. Per
valutare quanto sia distante il momento dell’esaurimento, è necessario in primo
luogo considerare l’andamento e la durata delle riserve di petrolio (tab. 5). Di solito, per semplicità, tale durata è calcolata
dividendo le riserve per la produzione dell’anno. Questo calcolo è però
impreciso perché ‘istantaneo’: non considera, cioè, che in quel numero di anni
si troveranno probabilmente nuove riserve. Su scala mondiale, il rapporto
‘istantaneo’ tra riserve e produzione, di 42 anni
nel 1991, era sceso a 39 anni
nel 2007; per gli Stati Uniti era di 8 anni nel 1991 e di 11 nel 2007 (ENI 2008). In ogni anno di questo intervallo di tempo si sono però
trovate riserve sufficienti per preservare la loro durata. D’altro canto, la
serie statistica del volume delle riserve non mostra alcuna linea di tendenza;
in altre parole, la scoperta di idrocarburi è un fenomeno discontinuo, anche se
le riserve mondiali hanno mostrato un leggero aumento tra il 2000 e il 2007. La serie
temporale delle riserve è formata da lunghi periodi in cui se ne scoprono in
quantità sufficiente solo a mantenerne immutato il livello, o quasi, e da
piccoli intervalli, distribuiti irregolarmente, in cui si scoprono nuovi grandi
giacimenti e le riserve segnano repentini incrementi. È dunque molto difficile
fare previsioni, e anche gli studi che sono stati condotti a livello
planetario, tentando di stimare la naftogenesi delle varie aree sedimentarie
del mondo, non sembrano indicare dati sicuri.
Un esempio
di tale difficoltà è rappresentato da uno studio effettuato a metà degli anni
Novanta (Colitti, Simeoni 1996), che prevedeva
l’attività futura di ricerca, i possibili ritrovamenti, la produzione dei
vecchi giacimenti, quella dei nuovi, e quella realizzabile con i metodi di
recupero assistito. In questo studio, la data di esaurimento delle riserve di
idrocarburi (petrolio e gas) veniva individuata negli anni Ottanta del 21° secolo. Da allora, tuttavia, è straordinariamente
migliorata la tecnologia di ricerca e di produzione (anche se è aumentata la
domanda, soprattutto da parte dei Paesi in via di sviluppo); sembra dunque che
la stima prima citata debba essere spostata in avanti almeno di qualche
decennio, soprattutto per lo sviluppo della produzione assistita (che stimola
il giacimento quando la sua energia non è più sufficiente). È però difficile
essere più precisi, perché il progresso della tecnologia permette di operare,
sia in terra sia in mare, a profondità impensabili soltanto dieci anni fa, e le
possibilità di nuove scoperte e di una maggiore produzione dai giacimenti noti
sono tutt’altro che trascurabili.
Va
precisato che la distribuzione delle riserve mondiali non è uniforme: un’area,
relativamente piccola, quale il Medio Oriente, che ha un rapporto
riserve-produzione di 70 anni, è assolutamente
predominante.
Di recente
altri fattori sono venuti a complicare ulteriormente le previsioni
sull’esaurimento delle riserve. Spronata dal prezzo alto del petrolio, si è
avuta una vera e propria esplosione della tecnologia delle fonti rinnovabili,
tra le quali l’energia eolica e quella solare rappresentano già oggi una
potenziale alternativa al petrolio per la produzione di elettricità. È
probabile, inoltre, che lo sviluppo della produzione di carburanti ricavati dai
prodotti agricoli e dell’auto elettrica contribuirà a far sì che il panorama
dell’energia diventi molto meno concentrato sul petrolio, circostanza che
allungherebbe la vita delle riserve, anche molto oltre quanto era stato finora
previsto. Secondo alcune ipotesi, forse un po’ azzardate, lo sviluppo futuro
della tecnologia sarà tale che il petrolio seguirà la stessa sorte del carbone,
e rimarrà in parte nei giacimenti senza essere sfruttato, perché altre fonti di
energia si saranno sviluppate, sostituendolo. In ogni caso, i consumi
petroliferi dovranno essere severamente contenuti per ragioni ambientali, e
anche questo avrà l’effetto di prolungare la durata delle riserve.
È dunque
comprensibile come sulla data dell’esaurimento degli idrocarburi si sia
sviluppato un vivace dibattito. Un numero crescente di esperti ritiene che
l’inizio della fine delle riserve petrolifere, cioè il picco della produzione
dopo il quale questa dovrà lentamente ridursi, sia molto vicino, o addirittura
sia già avvenuto. Alcune delle principali aree di produzione di petrolio e di
gas fuori dall’area OPEC stanno effettivamente esaurendosi. È il caso di aree,
pur recenti, come il Mare del Nord e certe zone dell’Alaska. In queste
condizioni sembra trovarsi anche il Messico, a causa non tanto di fattori
fisici quanto di un’insufficiente ricerca. Altri Paesi produttori fuori
dall’area OPEC stanno probabilmente avvicinandosi al picco. Esistono per contro
aree ancora da sviluppare completamente (per es., il Mar Caspio o certe zone
dell’Africa) e altre tuttora non accessibili (per es., quelle sotto la calotta
di ghiaccio dei poli).
Le
condizioni politiche e ambientali della ricerca
Le nuove
riserve devono essere cercate, trovate e messe in produzione. Ogni tentativo di
previsione, anche qualitativo, deve quindi valutare le attività di esplorazione
e di perforazione, che si stanno sviluppando in aree sempre più isolate e
difficili, sia perché quelle più facili sono già state oggetto di ricerca sia perché,
in molti Paesi, alle compagnie petrolifere private viene negato l’accesso alle
aree indiziate, riservate alle compagnie nazionali. Le grandi compagnie private
sono ricche di mezzi finanziari e scarse di nuove aree, mentre quelle dei Paesi
produttori tendono a essere scarse di denaro, perché devono sostenere il
bilancio dei loro Stati, ma ricche di aree: una situazione che dovrebbe alla
fine condurre a un’effettiva cooperazione. Se le migliori tecnologie di ricerca
e di produzione – generalmente nelle mani delle grandi compagnie private e
delle imprese che vendono loro i servizi tecnici – si potranno applicare a
tutte le aree disponibili, quasi certamente verranno messe in luce rilevanti
nuove riserve.
Un esempio
interessante è il boom, iniziato in America Settentrionale con il nuovo secolo,
del gas naturale ‘non convenzionale’, ossia il metano che si estrae da
formazioni geologiche diverse da quelle solite (scisti e simili), e che
richiede attrezzature e processi particolari di frammentazione delle rocce. La
produzione statunitense di gas, in declino da una decina di anni, ha ripreso ad
aumentare notevolmente, nonostante il maggior costo del nuovo gas.
La ricerca
petrolifera sin dalle sue origini ha interferito in modo pesante con la natura
dei luoghi in cui si realizza. Un esempio particolarmente grave si è avuto
nel 2010 con l’esplosione di un pozzo
sottomarino nel Golfo del Messico (dal quale sono fuoriusciti decine di
migliaia di barili al giorno di greggio), dovuta, si può supporre, a un tardivo
o mancato comando di bloccare la perforazione. Le ricerche petrolifere
risulteranno più accettabili, e aree oggi chiuse, ma indiziate, potranno venire
gradatamente aperte (per es., negli Stati Uniti settentrionali) soltanto se le
compagnie petrolifere si renderanno conto dell’esigenza di operare con il
massimo rispetto per l’ambiente.
La
strategia MER e quella dell’OPEC
A partire
dagli anni Venti del 20° sec., negli Stati Uniti le
grandi imprese e i produttori di petrolio indipendenti adottarono una strategia
di sfruttamento dei giacimenti denominata maximum economic rate (MER), in base alla
quale circa il 30% delle riserve del giacimento
viene prodotto già nei primi quattro anni (successivamente l’energia del
giacimento ha la tendenza a scemare, e la produzione a decrescere, fino al suo
esaurimento al venticinquesimo o trentesimo anno). Secondo questa strategia, il
produttore ammortizza già nei primi anni di produzione il costo della ricerca e
dello sviluppo del giacimento.
L’OPEC,
invece, gestisce la produzione dei Paesi che ne sono membri in modo da
prolungare la vita delle riserve e massimizzare gli introiti. L’OPEC ha cioè
mantenuto una metodologia di sfruttamento opposta a quella delle compagnie che
operano secondo il MER: i giacimenti del Medio Oriente, che hanno il costo di
produzione più basso, invece di essere sfruttati per primi, come richiederebbe
la logica economica, lo sono per ultimi. Quindi le risorse che dureranno più a
lungo nel tempo saranno appunto quelle dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi
del Golfo, perché sono molto ampie e perché quei Paesi cercheranno di far
durare nel tempo il loro reddito petrolifero. Questa strategia è perfettamente
compatibile con un prezzo alto – che del resto non è dettato dall’OPEC, ma
stabilito dal mercato dei futuri –, dato che questo tende a ridurre la domanda.
L’esperienza del primo shock petrolifero indica effettivamente che un aumento
molto forte del prezzo può determinare un calo della domanda. Tuttavia non è
sempre così: il forte aumento dei primi anni del 21°
sec. ha prodotto le stesse conseguenze, ma soltanto sui Paesi a economia matura
(Europa, Giappone e, in minor misura, Stati Uniti). Alcuni Paesi in via di
rapido sviluppo, come la Cina o l’India, hanno impostato un percorso di
crescita dei consumi petroliferi che sembra mantenere la sua dinamica anche con
prezzi molto alti. È opportuno ricordare che nello shock petrolifero del 1973 la domanda di prodotti petroliferi si ridusse
soprattutto nell’industria, che oggi consuma in prevalenza gas, e molto meno
nei trasporti. Rispetto ad allora, nei Paesi sviluppati è più alto il numero di
consumatori che hanno un livello di reddito per il quale il costo del
carburante non riveste grande importanza, e le automobili di grossa cilindrata
(grandi consumatrici di carburante) rappresentano un simbolo di status.
Tuttavia è
realistica, come detto, la possibilità di sostituire in parte i carburanti
petroliferi con altri di origine agricola, la cui produzione va aumentando ed
è, al contempo, sostenuta da molti governi e istituzioni sovranazionali (fra
cui l’Unione Europea), preoccupati per il problema della sicurezza dei
rifornimenti energetici e incoraggiati nella loro azione dal prezzo alto del
petrolio, che rende competitive produzioni altrimenti fuori mercato. Si può
ipotizzare per il petrolio, quindi, un regime di prezzi alti durevole nel
tempo, con l’effetto di restringerne i consumi ai soli carburanti, anch’essi
miscelati con prodotti di origine agricola che potrebbero raggiungere volumi
rilevanti entro il 2020. Gli usi termici, per
l’industria o per la produzione di energia elettrica, potranno essere
soddisfatti con gas naturale o, a più lungo termine, con il carbone e l’energia
nucleare. In realtà la sostituzione del petrolio per questi usi è già in atto da
tempo, e questo è un altro fattore che ne potrà prolungare la vita oltre il
termine previsto.
Efficienza
del consumo
La durata
dello sfruttamento delle risorse petrolifere può essere prolungata anche
dall’aumento dell’efficienza del loro impiego. I sistemi di utilizzo
dell’energia sono fortemente migliorati negli ultimi trent’anni, un processo
iniziato nel 1973, con il primo shock petrolifero.
Per es., il consumo per chilometro percorso delle automobili si è ridotto di
più della metà perché le automobili sono più leggere (per il maggior uso di
materie plastiche e di alluminio) e i motori sono più efficienti. Lo stesso
dicasi per la produzione dell’energia elettrica, perché l’avvento del gas ha
portato un forte miglioramento tecnologico (con le centrali a ciclo combinato).
I possibili ulteriori sviluppi dell’efficienza energetica costituiscono di per
sé un fattore di maggiore durata del petrolio. Peraltro, il risultato di questa
tendenza si vede già nei dati del consumo di questi ultimi anni: molti grandi Paesi
sviluppati, come quelli europei o il Giappone, fanno segnalare aumenti
relativamente piccoli del loro consumo di greggio, intorno all’1%
annuo. Gli unici Paesi che aumentano la domanda delle fonti di energia a ritmi
molto alti sono quelli in via di sviluppo e, sia pure in modo più contenuto,
gli Stati Uniti. Il forte aumento della domanda di petrolio di certe aree
moltiplica i consumi a livello planetario. In Paesi come la Cina e l’India, il
consumo pro capite di
prodotti petroliferi è intorno al 10% di quello
europeo, e c’è quindi ampio spazio per aumentarlo; tuttavia è poco probabile
che questi Paesi raggiungano livelli di consumo simili a quello per es. degli
Stati Uniti, anche a causa del prezzo troppo alto del petrolio.
Tutte
queste considerazioni avvalorano l’ipotesi di un esaurimento delle riserve di
petrolio in un lasso di tempo abbastanza lungo, dell’ordine di circa tre quarti
di secolo, il quale tuttavia potrebbe anche essere ulteriormente protratto.
La
sostenibilità
Un modello
basato sul consumo di fonti di energia, per la mobilità o per il calore,
produce un certo livello di inquinamento dell’aria e dell’acqua. Gli
idrocarburi inquinano meno delle fonti energetiche utilizzate in precedenza, in
particolar modo del carbone, ma il loro uso generalizzato – e in continuo
aumento – costituisce ugualmente una minaccia all’assetto complessivo del
pianeta Terra. Il modello degli idrocarburi è molto flessibile, ma è pur sempre
basato sulla combustione, e quindi su emissioni che si possono ridurre difficilmente
a zero.
Il problema
di quanto possa perdurare il sistema petrolifero non può quindi essere
considerato soltanto dal punto di vista della durata fisica degli idrocarburi.
L’altro punto di vista, ben più importante, riguarda la sostenibilità
ambientale. Sembra certo (su questo punto il consenso generale del mondo
scientifico è ormai ben definito e stabile) che il sistema petrolifero così
com’è adesso non sia sostenibile, in quanto produce danni ambientali capaci di
alterare in modo permanente l’equilibrio del pianeta. Tuttavia, allo stato
attuale né le compagnie petrolifere private né, in realtà, i consumatori hanno
mutato sostanzialmente il loro comportamento: come già evidenziato, il forte
aumento del prezzo ha portato a una riduzione della crescita della domanda, ma
solo nei Paesi maturi, e non in quelli in via di sviluppo. Pertanto sarà forse
necessario indurre politicamente un cambiamento radicale del sistema
petrolifero. È difficile dire quale veste potrebbe assumere un tale
cambiamento, che avrebbe carattere epocale. Si può tuttavia prevedere che al
petrolio verrà riservato il solo settore del trasporto, già oggi la sua
principale utilizzazione. L’aumento dell’efficienza dei veicoli potrebbe quindi
ridurne il consumo, l’inquinamento e le emissioni. Dato il livello di
congestione urbana (e non soltanto nei Paesi sviluppati), una misura del genere
sembra inevitabile, anche per continuare a garantire ai consumatori il
vantaggio fondamentale del sistema petrolifero, cioè la mobilità.
Il problema
dell’inquinamento atmosferico urbano non potrà essere risolto se non con una di
queste due ipotesi: o la trasformazione delle città con la creazione di reti di
trasporto su rotaia (sul modello ottocentesco, ancora oggi perfettamente
funzionante, per es. nella città di Londra); o l’utilizzazione di motori mossi
in tutto o in gran parte dall’elettricità. Delle due ipotesi sembra più
probabile la seconda, ma anche la prima potrebbe essere perseguita
efficacemente, data la concorrenza che i treni veloci già fanno al trasporto
aereo a medio raggio. Questa prospettiva richiederebbe però di sostituire
totalmente il petrolio con qualche altro combustibile per la produzione di
energia elettrica e per gli usi industriali, opzione peraltro vincolata a
soluzioni (non ancora percorribili) del problema della cattura (o, meglio,
dell’utilizzazione) della CO2 e a quello di una maggiore accettabilità
dell’energia nucleare. Negli usi termici il petrolio è già stato largamente
sostituito dal gas naturale, il quale però produce anch’esso CO2, seppure in
quantità ridotta. Tuttavia è molto probabile che questo insieme di misure non
sia sufficiente, anche se la riduzione delle emissioni, sia nella produzione di
elettricità sia nel trasporto, potrebbe essere comunque molto rilevante.
Ulteriori
previsioni sono condizionate da una fondamentale domanda: come sarebbe
possibile smettere di aumentare le emissioni ed eventualmente ridurle a zero
senza sminuire decisamente il ruolo del petrolio nel sistema economico, e
quindi la mobilità nella vita quotidiana delle città moderne? Sembrano
inevitabili forti restrizioni fisiche al consumo di greggio, con il possibile
favore dei nuovi leader della scena petrolifera, i Paesi produttori, i quali
hanno interesse a prolungare il più possibile la vita del petrolio, a cui è
legato, almeno per il momento, il loro benessere economico. Regolamenti
restrittivi sono già stati applicati in molte città europee, ma non sembra che
abbiano ridotto né la mobilità né il consumo di prodotti petroliferi.
Interrogarsi sulla sorte del sistema petrolifero, cioè sull’epilogo o meno
dell’era del petrolio, richiede risposte decisive su questo complesso di
problemi che ha assunto i termini dell’urgenza. Occorre in ogni caso tenere
presente che il progresso tecnologico sarà con tutta probabilità in grado di
cambiare in modo radicale il quadro attuale.
https://www.treccani.it/enciclopedia/l-era-del-petrolio_%28XXI-Secolo%29/
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