Una delle poche cose sulle quali tutti
concordano, almeno a parole, è questa: l’Italia è un Paese dove il merito conta
sempre meno. I centomila italiani che ogni anno vanno a cercare (e a trovare) all’estero
lavori adeguati al loro livello di studi, creatività e capacità, Saper fare
bene il proprio mestiere, essere brillanti negli studi, da noi non è
considerata la prima qualità per ricoprire un ruolo, rispetto a conoscenze,
amicizie, parentele, fedeltà politiche, obbedienza al capo. Gli esempi sono
davanti agli occhi di tutti, anzi sfilano ogni sera in televisione, e quindi
non occorre far nomi. Ogni nuovo potere promette un’ondata di meritocrazia e
dopo poco si ritorna alla solita infornata d’imbecilli miracolati,
inevitabilmente destinati a peggiorare i conti di questa o quell’azienda
pubblica o privata, amministrazione, televisione o ente culturale, eppure
inamovibili perché garantiti alto. Meritocrazia può essere un termine
fastidioso, e allora parliamo, come fa l’Istat, di qualcosa di più profondo, la
mobilità sociale. L’Italia è stata per decenni, dal dopoguerra, un esempio
europeo di opportunità. Grazie a grandi investimenti di Stato e a un ottimo
sistema d’istruzione pubblica, il figlio di un operaio, di un contadino, di un
impiegato poteva spirare a migliorare la propria posizione sociale ed
economica, nonostante il tradizionale familismo. Guarda caso allora eravamo il
Paese d’Europa con il maggior livello di crescita economica. Le élites si sono spaventate per il destino
dei propri pargolo, dunque per la sopravvivenza oligarchica, e il sistema è
cambiato. Si è disinvestito in istruzione, formazione e, riforma dopo riforma,
stravolto il sistema scolastico. Oggi l’Istat certifica che l’Italia è uno dei
Paesi più immobili d’Europa e guarda caso siamo diventati la nazione che cresce
meno. Come se ne esce? Non certo importando a casaccio ricette straniere. Per
esempio il sistema duale del Nord, l’alternanza scuola lavoro, può funzionare
bene in Germania, dove l’apparato industriale è moderno, fondato su grandi
investimenti, innovazione e ricerca. Mentre in Italia, adattare la scuola alle
esigenze di un’industria bolsa e a basso livello tecnologico significa creare
studenti di serie B, rispetto al resto d’Europa. Perché anche le élites
tedesche o inglesi cominciano a preoccuparsi di questi brillanti italiani che
tolgono posti ai loro figli meno capaci.
Curzio Maltese – Contromano – Il Venerdì di Repubblica – 17
giugno 2016 -
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