Ho scritto su un blog
molto frequentato: “La Chiesa sbaglia condannando l’amore omosessuale, e un
cristiano che pensa con la propria testa ha il dovere di dirlo”. Un religioso
mi ha risposto: “Parafrasando Papa Francesco, si potrebbe affermare: “Chi sono
io per dire che la Chiesa sbaglia?”. Il Magistero è frutto di una tradizione
millenaria, approvata dal consenso dei vescovi di tutte le chiese locali. Si
può proporre nei modi opportuni una modifica, ma ritengo che sia fondamentale
l’obbedienza, soprattutto per cose che facciamo fatica a capire o che, in buona
fede, non approviamo”. Tradotto in altre parole, i discorso è questo: il
cervello e il cuore degli uomini (non delle donne ovviamente) della Chiesa è il
tuo pensiero. Tu devi solo obbedire. Si d il caso che il sottoscritto non
faccia nessuna fatica a capire che è sbagliato pretendere dalle persone
omosessuali la rinuncia per tutta la vita all’esercizio della sessualità. Si dà il caso che di errori la Chiesa, per
suo stesso riconoscimento, ne abbia commessi nel passato, e non si vede perché
non potrebbe continuare a commetterne oggi. Del resto: dobbiamo obbedire alla
nostra coscienza, oppure agli uomini della Chiesa? Considerato anche che: “La
coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle
collocate in alto per spiare” (Siracide 37,14). Considerato anche che: “ Tutto
ciò che non viene dalla coscienza è peccato” (Romani 14,23). E, infine, che
Gesù disse: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Luca
12,57). Carmelo Dini carmedini@gmail.com
Se guardiamo la storia dell’umanità
non si può riconoscere che la religione, recingendone tenendo in sé raccolta
(re-legere) l’area del sacro, che è il luogo della violenza indiscriminata e
della sessualità indifferenziata, abbia condotto con i suoi dogmi, i suoi
comandamenti, i suoi precetti, i suoi divieti, l’umanità da uno stato selvaggio a uno stato quasi civile.
E tutti, almeno Europa, per secoli hanno pensato nel modo che la Chiesa
insegnava, anche perché per ch osava pensare con la propria testa erano pronte
le torture e i roghi. Fu nel Settecento, con l’Illuminismo, che si avanzò, tra
mille difficoltà, il diritto di pensare con la propria testa, che Kant celebrò
con questa espressione: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione
di minorità di cui egli stesso è responsabile”. “Minorità” è l’incapacità di
servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri”. Ne consegue che
l’illuminismo non è solo una corrente di pensiero o un compendio di conquiste filosofiche,
ma un atteggiamento, una condotta, una
pratica di vita,un esercizio del pensiero da cui non è possibile esonerarsi se
non al costo, scrive Kant, “di violare e calpestare i sacri diritti
dell’umanità”.(..). Quando si dice la propia “testa” o la propria “coscienza”,
in realtà non si sta dicendo niente di interessante, perché il problema è:
quante cose sa quella testa? E di quanto giudizio critico e autocritico è
nutrita quella coscienza?. Ne consegue che il principio di autodeterminazione,
nel formulare le nostre opinioni o nel dirigere la nostra condotta, non è di
per sé un criterio a cui dobbiamo inchinarci, perché la nostra coscienza non è
altro che il frutto dei condizionamenti a cui, anche senza una nostra
decisione, ci siamo arresi, vittime in un modo o nell’altro di chi ci ha
persuaso. E qui a soffrirne è anche la democrazia, perché là dove non c’è
cultura, conoscenza, riflessone critica, vale sempre il principio: “una testa
un voto”, ma forse quella testa non è proprio la nostra, ma un’appendice di
chi, a nostra insaputa, ce la sta guidando.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 18 giugno 2016 -
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