Mi sento una scimmia.
Perché ho lo stesso margine di autogestione di una scimmia ammaestrata. E’ il
mio lavoro. Rispondo al telefono. Tutto il tempo. Sempre e comunque, tutto il
giorno, tutti i giorni. Non mi allontano dalla postazione, non mi allontano,
non parlo con il collega a meno che non sia il telefono a deciderlo,
interrompendo, per il tempo che è lui a stabilire, il suo martellare perpetuo.
Sono totalmente etero diretta. Mi limito a seguire e applicare procedure
standard, talvolta persino approssimative e nebulose. E’ come stare su una
catena di montaggio mentale anziché manuale: una chiamata dietro l’altra,
meccanicamente, senza distrazioni, interruzioni o tentennamenti. Ogni cosa è
cronometrata: la durata delle pause (quindici minuti esatti). Non c’è gesto
nella giornata che non venga misurato. Velocità, brevità e quantità devono
essere gli obiettivi a cui tendere: più chiamate smaltisco, meno tempo si
impiego, migliore è la mia prestazione. Non per niente la tanto decantata
efficienza che si richiede è un tipico attributo delle macchine. Ed è d’obbligo
fingere che io sia molto più simile a una macchina che esegue un compito,
piuttosto che a un essere umano con esigenze più complesse, ma potenzialmente destabilizzanti
per il sistema. Una lavoratrice di call center
I lavoratori dei call center sono per
me la conferma più evidente che, come a più riprese nel secolo scorso avevano
annunciato Heidegger,Junger, Jaspers e Gunther Anders, è finita l’età umanistica,
quando l’uomo era il soggetto della storia e gli strumenti che utilizzava per
il suo lavoro erano i mezzi con cui realizzava nell’opera le sue ideazioni ed
esprimeva le sue capacità. Oggi non è più così perché, nell’età della tecnica,
l’uomo non è più il soggetto del suo operare, ma il semplice esecutore di
azioni descritte e prescritte dall’apparato tecnico regolato dai soli criteri
di efficienza e produttività.(..) Gunther Anders, allievo di Heidegger,
trasferitosi in America per sfuggire alle persecuzioni naziste, dopo aver
trovato lavoro alla Ford, scrisse al suo Maestro: “Lei mi ha insegnato che
l’uomo è il pastore dell’essere, ma io qui alla Ford mi sento il pastore delle
macchine. Nel nostro lavoro non dobbiamo avere alcun interesse per ciò che eseguiamo,
dobbiamo lavorare senza scopo. Se uno di noi domandasse al caposquadra qualcosa
sullo scopo del nostro fare, nel migliore dei casi passerebbe per un tipo
strano e inidoneo al lavoro. Dato che si svolge alla cieca rispetto allo scopo,
il nostro lavoro è simile a una ginnastica, a esercizi a corpo non libero
perché dettati dalla catena di montaggio. E dobbiamo essere persino grati che ci è concesso di
eseguirla, a differenza dei disoccupati che chiedono il diritto a questa
ginnastica come un diritto politico fondamentale. (..). Rovesciando la teoria
del filosofo francese Lamettrie, che concepita l’uomo come una macchina,
potremmo dire che nell’età della tecnica l’uomo deve farsi simile alla
macchina, prendere esempio dal computer che ha davanti agli occhi, perché la
macchina non si assenta, non prende ferie o malattie, non va in depressione
come talvolta capita agli umani, non si demotiva, non si distrae, non è turbata
da sentimenti o problemi familiari, non cerca la propria autorealizzazione. Per
tutte queste ragioni, come scrive Gungher Anders: “l’uomo è antiquato”. E
nell’età della tecnica deve portarsi all’altezza delle prestazioni del suo
computer, se vuol salvare il posto di lavoro, condizione del suo vivere. Siamo
a questo.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica 7 novembre 2015
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