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venerdì 13 novembre 2015

Lo Sapevate Che: Quando chiama il Call Center siate gentili...



Mi sento una scimmia. Perché ho lo stesso margine di autogestione di una scimmia ammaestrata. E’ il mio lavoro. Rispondo al telefono. Tutto il tempo. Sempre e comunque, tutto il giorno, tutti i giorni. Non mi allontano dalla postazione, non mi allontano, non parlo con il collega a meno che non sia il telefono a deciderlo, interrompendo, per il tempo che è lui a stabilire, il suo martellare perpetuo. Sono totalmente etero diretta. Mi limito a seguire e applicare procedure standard, talvolta persino approssimative e nebulose. E’ come stare su una catena di montaggio mentale anziché manuale: una chiamata dietro l’altra, meccanicamente, senza distrazioni, interruzioni o tentennamenti. Ogni cosa è cronometrata: la durata delle pause (quindici minuti esatti). Non c’è gesto nella giornata che non venga misurato. Velocità, brevità e quantità devono essere gli obiettivi a cui tendere: più chiamate smaltisco, meno tempo si impiego, migliore è la mia prestazione. Non per niente la tanto decantata efficienza che si richiede è un tipico attributo delle macchine. Ed è d’obbligo fingere che io sia molto più simile a una macchina che esegue un compito, piuttosto che a un essere umano con esigenze più complesse, ma potenzialmente destabilizzanti per il sistema.  Una lavoratrice di call center
I lavoratori dei call center sono per me la conferma più evidente che, come a più riprese nel secolo scorso avevano annunciato Heidegger,Junger, Jaspers e Gunther Anders, è finita l’età umanistica, quando l’uomo era il soggetto della storia e gli strumenti che utilizzava per il suo lavoro erano i mezzi con cui realizzava nell’opera le sue ideazioni ed esprimeva le sue capacità. Oggi non è più così perché, nell’età della tecnica, l’uomo non è più il soggetto del suo operare, ma il semplice esecutore di azioni descritte e prescritte dall’apparato tecnico regolato dai soli criteri di efficienza e produttività.(..) Gunther Anders, allievo di Heidegger, trasferitosi in America per sfuggire alle persecuzioni naziste, dopo aver trovato lavoro alla Ford, scrisse al suo Maestro: “Lei mi ha insegnato che l’uomo è il pastore dell’essere, ma io qui alla Ford mi sento il pastore delle macchine. Nel nostro lavoro non dobbiamo avere alcun interesse per ciò che eseguiamo, dobbiamo lavorare senza scopo. Se uno di noi domandasse al caposquadra qualcosa sullo scopo del nostro fare, nel migliore dei casi passerebbe per un tipo strano e inidoneo al lavoro. Dato che si svolge alla cieca rispetto allo scopo, il nostro lavoro è simile a una ginnastica, a esercizi a corpo non libero perché dettati dalla catena di montaggio. E dobbiamo  essere persino grati che ci è concesso di eseguirla, a differenza dei disoccupati che chiedono il diritto a questa ginnastica come un diritto politico fondamentale. (..). Rovesciando la teoria del filosofo francese Lamettrie, che concepita l’uomo come una macchina, potremmo dire che nell’età della tecnica l’uomo deve farsi simile alla macchina, prendere esempio dal computer che ha davanti agli occhi, perché la macchina non si assenta, non prende ferie o malattie, non va in depressione come talvolta capita agli umani, non si demotiva, non si distrae, non è turbata da sentimenti o problemi familiari, non cerca la propria autorealizzazione. Per tutte queste ragioni, come scrive Gungher Anders: “l’uomo è antiquato”. E nell’età della tecnica deve portarsi all’altezza delle prestazioni del suo computer, se vuol salvare il posto di lavoro, condizione del suo vivere. Siamo a questo.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica 7 novembre 2015

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