Mi ha molto colpito la
sua riflessione sulla relazione tra “poliamore” e “revocabilità delle scelte”.
Sarà che sto vivendo da non sposata una relazione tormentata con un uomo
sposato e non smetto di interrogarmi su fedeltà e tradimento, bisogni
individuali e valori, ma fondamentalmente il dilemma per me e il mio amato
resta proprio la “revocabilità delle scelte”, in primis quella matrimoniale.
(..) anche Papa Benedetto sembra aver sancito la totale libertà umana di revocabilità
di qualsiasi scelta, ivi inclusa quella divina, esprimendo in tal modo il
primato del sentire umano, consapevole del proprio mutamento e della propria
evoluzione (..). La fedeltà incondizionata alle proprie scelte, siano esse
religiose, o altro, non è dunque un principio di identità di tipo statico
basato su convincimenti, su un racconto cristallizzato, piuttosto che
sull’autentica consapevolezza della propria umanità contraddittoria, possibile
di evoluzioni e rivoluzioni?(..) Liberi di conoscere e sperimentare la vita,
non dico più felici, ma più consapevoli dell’esperienza umana come unicum
irripetibile? Anzi mi pare che tale libertà comprenda un’irrequieta, dolorosa
felicità alla quale non vorrei rinunciare.
Lettera firmata
Il tema che lei pone e che investe il
rapporto tra libertà e felicità è stato oggetto di interessanti riflessioni da
parte di psicoanalisti e filosofi, a incominciare da Freud che nel Disagio
della civiltà in proposito scrive: “Di fatto l’uomo primordiale stava meglio
perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In Compenso la sua sicurezza
di godere a lungo di tale felicità era molo esigua. L’uomo civile ha barattato
una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”. Se la
felicità consiste nella mancanza di qualsiasi restrizione pulsionale, ha buon
gioco. Marcuse bel sottolineare che per noi occidentali, vivendo in una civiltà
ormai assestata in termini di sicurezza e di soddisfazione dei bisogni, è
possibile allentare le restrizioni pulsionali e perciò propone in Eros e civiltà di “ capovolgere il senso
di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività
e distruzione, libertà e repressione e apprendere l’arte di utilizzare la
ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo secondo i suoi istinti di
vita”. (..). Per me il problema si pone altrove. Siccome viviamo in una società
tutt’altro che liquida, come sostiene superficialmente Zygmunt Bauman, ma anzi
rigorosamente cementata dalle regole ferree dell’economia e della tecnica ormai
globalizzate, ne consegue che siamo tutti etero diretti dai criteri
dell’efficienza e della produttività. Non più uomini ma funzionari di apparati,
che devono solo eseguire azioni descritte e prescritte dall’apparato di
appartenenza. (..) Ma se l’amore diventa al’unico ricettacolo dove reperire un
proprio senso rispetto a una vita alienata, allora diamo all’amore un carico
eccessivo che non si difende dall’instabilità e dalla mutevolezza delle
passioni, dove esaltazione e sconforto camminano affiancati e la realizzazione
di sé ha intimi confini con la perdita di sé. In questo turbinoso movimento,
dove nulla è stabile ma tutto è revocabile, come si costruisce una biografia in
cui potersi riconoscere?
Umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica 14 novembre 2015 -
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