“L’ospedale è un santuario. Una volta
che il paziente è dentro, è protetto”. Jean Paul Thome, franco libanese
direttore dell’Ospedale di Medici Senza Frotiere di Amman, Giordania, usa
parole tanto semplici quando inequivocabili. Lo incontro ad un mese esatto di
distanza dal bombardamento americano dell’ospedale Msf di Kunduz, Afghanistan,
costato la vita a pazienti e personale medico. “E forse a qualche talebano”
aggiungo argomentando l’inargomentabile con il pretesto, fin qui non smentito,
di un attacco fatto a una struttura sanitaria in quanto, forse, avente in cura
anche terroristi. Quanto sia difficile nella pratica seguire il giuramento di
Ippocrate, me lo aveva già raccontato Naji, chirurgo siriano conosciuto appena
sbarcato sulle coste greche. Lui, in Siria, curava tutti i feriti che fossero
soldati del regime o ribelli, eticamente poco cambiava. La cosa però non era
gradita al regime che proprio sui medici esercitavano le pressioni maggiori.
Pensare all’altezza del pensiero di Ippocrate Naji e Jean Paul in tempi di
legge del taglione e pensiero regressivo, catapulta in un altro mondo, quello
che, per quanto possa sembrare surreale, prevede delle regole anche in guerra.
Guerra che è qui, tutta intorno a noi. Mentre parlo con Jean Paul, nella stanza
accanto alla nostra una ristretta commissione di chirurghi sta vagliando con
foto e documenti i casi da prendere in cura. Sono tutti corpi di feriti di
guerra (tranne alcuni bambini vittime di incidenti domestici) arrivati da
Siria, Yemen, Iraq e Palestina. In gergo vengono definiti casi “freddi” perché
già trattati altrove, tipo Kunduz, dove fino al bombardamento arrivavano
“caldi”. L’umanità che gira nei corridoi non lascia scampo alla sensibilità. Un
bambino ustionato, dai connotati stravolti, gioca a pallacanestro con un altro
in carrozzella. Una quattordicenne siriana cammina veloce con le stampelle.
“Quando l’ho vista pensavo fosse una nana, ma qualcosa non mi convinceva”, mi
dice un collaboratore di Msf. “In realtà stava correndo per i corridoi sulle
ginocchia, con delle scarpe applicate alle rotule. Ha entrambe le gambe
amputate ma si è sempre rifiutata di usare la sedia a rotelle. Ora ha le
protesi giuste e cammina contenta”, “Vogliamo un’indagine indipendente su
Kunduz”, mi dice Gabriele Eminente, di Msf Italia. Un ente terzo per condurla
esiste, è una Commissione fatta di 70 Stati, che però fin qui non ha mai
lavorato. Per farla cominciare basterebbe la richiesta di uno solo di questi
Stati, Italia compresa. Ad oggi, nessuno ha avuto il coraggio di farlo.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro – Il Venerdì di Repubblica
29 Novembre 2015
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