Eduardo Scarpetta, nato a Napoli il 13
marzo 1853,
cominciò ad avvicinarsi al teatro all'età di quindici
anni e si ritirò dalle scene solo nel 1909. Padre di Titina, Peppino e Eduardo
De Filippo, che mai riconobbe, morì il 29 novembre 1925.
Italia, seconda metà dall' '800: sono gli anni in cui
nella società cade la Destra storica e la Sinistra va al potere, a pochi anni
dal suo compimento crolla miseramente il mito dell'unificazione e si tenta il
decentramento amministrativo seguendo le idee federaliste di Carlo Cattaneo
mentre in tutta la penisola prosperano le culture regionalistiche.
Napoli, seconda metà dell' '800: all'Università
tramonta la scuola del De Sanctis, dopo un lungo silenzio viene ripristinata la
festa di Piedigrotta nel suo aspetto più popolare di festa canora e nel teatro
si chiude un'epoca che era stata caratterizzata da un attore di straodinario
successo: Antonio Petito. Con la sua scomparsa, nel 1876, si apre l'era di
Eduardo Scarpetta.
Scarpetta, nato a Napoli nel '53, aveva esordito al
teatro Partenope nella farsa "Feliciello Sciosciammocca mariolo de na
pizza" e nel '76, quando muore l'astro Antonio Petito, era già così famoso
da oscurarlo.
Nel '71 arriva al teatro San Carlino, che
ristrutturerà completamente a sue spese nell' '80, e lì consacra il suo
successo. "Miseria e nobiltà", il suo capolavoro, viene rappresentata
per la prima volta il 7 Gennaio 1988 al Teatro del Fondo. "Il Medico
dei Pazzi" del 1908 è considerato il suo addio alle scene che lascia
l'anno successivo. Muore nel 1925.
Nella nuova fase
della cultura Napoletana "...in "Feliciello Sciosciammocca" tutti
riconoscono, ammirati, una singolare spontaneità, delle irresistibiuli qualità
comiche, la novità esilarante di una nuova semimaschera capitata a tempo tra
vecchi caratteri già muffiti...per risollevare le sorti della commedia popolare..."
e dunque Eduardo Scarpetta "...si affacciava sulla scena vernacola con il
nuovo "homo neapolitanus", simbolo cioè di un tipico interclassismo,
nel quale l'allegro superamento delle due antitesi feudali "miseria e
nobiltà" era in sostanza un far trionfare temi utilitaristici, elusivi dei
problemi sul tappeto dal '60 in poi; e che il teatrante lievitava in se per
farne smaccata materia d'arte comica, oggetto di allegorie buffonesche e
ciniche, demistificazione ed al tempo stesso consacrazione delle due opposte
categorie pseudosociali...Non erano temi nuovi: in essi confluivano le
esperienze dell'Illuminismo che Eduardo Scarpetta ereditava...dai
"buffonisti" e che riproponeva al nuovo pubblico delle città,
radunato intorno a lui in una coralità sempre più plaudente. Non aveva
importanza che prendesse a canovaccio delle sue commedie questa o quella
"fixelle" da "vaudeville" o si affidasse a questo o quel
personaggio da "boulevard": nella trasformazione che egli faceva di quel
materiale diventato grezzo attraverso traduzioni "preparatorie" di
oscuri amanuensi, c'era il segno di una particolare poetica drammatica nella
quale, in chiave di garbatissima ironia, coesistevano in un equilibrio
miracoloso elementi istrionici di vernacolo buffonesco e cioè la caricatura
della miseria, e dettato serioso di un italiano composito e lambiccato, vale a
dire la caricatura della nobiltà: il che se poteva sembrare critica emblematica
era in realtà disinvolta e scettica restaurazione comica, tanto più che proprio
la Francia "boulevardière" costituiva il nuovo incontro con la Napoli
"demoliberale" "fin de siecle" non solo sul terreno degli
scambi culturali ma soprattutto della moda e del costume..."
Ma dietro la risata
che prorompe sincera in ogni spettatore nel suo teatro esiste una lettura
"tra le righe", qualcosa che socchiuda il pensiero di Scarpetta, un
contenuto inconoscibile, di non facile lettura, ulteriore, che dia lustro alla
sua scrittura e riporti alla rappresentazione come fenomeno esoterico ed
essoterico ad un tempo ?
La risposta è No.
Scarpetta non pone
ipotesi esistenziali, nè fa vivere i suoi personaggi in un contesto storico
culturale. Siamo, come nella migliore tradizione favolistica e/o mitologica,
fuori dal tempo e dallo spazio, in un mondo dorato dove tutto è immobile e
giusto, in cui riverbera, come un'eco antica e lontana, un passato beato che
non si conosce ma a cui diamo costante credito, linfa e vita grazie al
rimpianto. Mitologici sono i suoi personaggi che non rappresentano mai se
stessi ma un qualcuno che somiglia a se stessi proiettati sull'eterno schermo
della vita. Le situazioni hanno sempre il senso di una quotidianità stantia e
tutto ciò che viene a mutare questo ineffabile immobilismo arriva solo per far
guai e di conseguanza scatenare l'ilarita di un pubblico che questo solo chiede
"Qui rido
io" si legge sulla facciata della sua villa di Napoli e il suo teatro è
proprio questo: un geniale pretesto per scatenare i muscoli del viso e tendere
quelli della pancia in un riso irrefrenabile, senza filtri o mediazioni, senza
agganci della mente che celebrino un qualsiasi substrato intellettuale, per
questo il suo è un riso esorcizzante e liberatorio. Ma esorcizzante e
liberatorio di cosa ? Della morte !!
L' Uomo cui si
rivolge Scarpetta non è un "Uomo senza qualità", al contrario non ama
pensare (Forse per questo il suo straordinario successo dura fino a noi) e la
mancata riflessione su se stessi è un inno alla negazione. Quì si nega la
morte. L'Uomo di Scarpetta è immortale ma non perchè rappresenta un
"Universale" ma in quanto materializza solo l'immagine riflessa di un
se unico ed irriproducibile, clonazione di se stesso nello spazio e nel cosmo e
dunque, per questo suo specifico, immortale.
Eppure esistono dei
motivi conduttori in tutto il teatro di Scarpetta: uno di questi è l'eterno
contrasto tra reale ed irreale, tra quotidiano vissuto malamente e un'ideale di
trasformazione che arriva dal di fuori, come un miracolo, a inserirsi in questa
quotidianita. Le soluzioni ai problemi che sono immessi per suscitare ilarità
appaiono quasi sempre miracolistiche (Tranne che ne "Il Medico dei
Pazzi"), non trovano basi nella costruzione della commedia se non
nell'eterna speranza e castrante fiducia che "Qualcuno ci deve
pensare". Un "Qualcuno" immanente ma anche sempre presente eppur
celato alla vista dei più.
Intorno a questo
contrasto viene costruita la vicenda che ad un tempo gli dà forza e
contemporaneamente ne spegne la carica di rivolta. Si elabora un movimentato
alternarsi di dialoghi e situazioni che sono ad un tempo stesso farina e
lievito e che gettano le basi, allargando il tessuto del narrato, per lo
sviluppo della vicenda preparando il substrato per una conclusione che arriva
dall'esterno, contemporaneamente attesa ed inattesa, dove reale ed irreale si
fondono in un tutt'uno in cui sono indistinguibili e proprio questa situazione
configura l'analisi di Scarpetta: la vita è immobile nella sua grigia
conseguenzialità, il teatro è vita che esorcizza la morte. In questo contrasto
sta il suo vedere, leggere e scrivere il teatro che presenta le situazioni del
vissuto su cui in nulla si puo incidere e le fa rivivere proprio in funzione di
una soluzione miracolistica: "...l'uomo può sognare il miracolo, può
immaginarlo; ma chi lo fa vivere il miracolo è il teatro...". Dunque un
teatro che, secondo Scarpetta, offre un momento di pausa, un attimo di relax,
una boccata d'ossigeno nella palude della vita. "Un teatro incolto per una
platea che, quando incolta non è, preferisce comunque smettere di pensare,
mandare a spasso le meditazioni, gli intoppi del pensiero e della cultura,
preferisce farsi trascinare nel labirinto dell'inverosimile,
dell'extrasoggettivo e di lasciarsi andare."
Il tentativo di
Scarpetta è quello di trasporre sulla scena quei caratteri che rappresentino
l'immutabilità eterna, che può leggersi solo nelle stelle, di quella che per
lui è la Napoletanità. Di conseguenza vediamo giovani gaudenti, anziani in
cerca di avventure galanti, "sciupafemmine", mogli tradite che
cercano la loro rivincita allo stesso modo, personaggi arricchiti o diseredati
che portano con se il proprio fardello ed ogni genere di umanità che a volte
più che persone sembrano "ombre che portano il corpo con se. Quest'ultimi
costituiscono la materia di impulso dal quale la vicenda in generale si
divincola. Il racconto nasce con loro e va avanti con loro fino e oltre il
miracolo. Ma tant'è. La condizione di costoro da quella che essa è, si
emblematizza ed individualizza nel rapporto con la platea. E allora il miracolo
non si fa solo per gli affamati ed i diseredati, ma si fa per tutti, nessuno
escluso, perchè non c'è alcuno che avverta la stretta e la delusione del
quotidiano. L'invito del teatro è di negare la realtà del quotidiano, di
rigettarla. L'invito è di ridere."
Un palmo al di sopra
di queste "ombre che portano il corpo con se" si staglia "Felice
Sciosciammocca", maschera tra le maschere, che risponde all'esigenza
dell'autore di avvalorare le esigenze della sua variopinta fantasia con il
controllo del quotidiano. "Un volto come lo portano tutti gli uomini in
sostituzione di una maschera che ha un grosso spessore storico e un magma di
contenuti, una carica segnica così varia e ricca che non è possibile
delimitarne la potenzialità simbolica"
Il teatro di
Scarpetta va visto, più che sotto un aspetto critico, dalla parte di quel particolare
spettatore che ama gozzovigliare con la risata più semplice ed umana senza
scavare a fondo perchè raschiando in quel fondo non si troverebbe nulla, senza
cercare contenuti ulteriori, perche di ulteriore c'è solo la credenza
dell'autore nell'immobilismo umano, senza voler individuare
messaggi..senza...senza...
Se il suo successo
continua, e continua, vuol dire che questo genere di rappresentazioni
esaudiscono un desiderio inconscio e conscio di uno spettatore che vuol ridere
di pancia e coniugano le inclinazioni dell'autore con quelle del suo vasto
pubblico soddisfacendo le sue attese. Attese che ancor'oggi sono in molti di
noi.
http://www.teatrodinessuno.it/scarpetta-eduardo
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