«Il Senato e la Camera
dei deputati hanno approvato; Noi abbiano sanzionato e promulgato quanto segue:
Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il
titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello
Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque
spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino
addì 17 marzo 1861».
L’Italia unita nasce a Torino l60 anni
fa in quella domenica 17 marzo 1861. Le parole citate costituiscono tutta la
legge 4671 del Regno di Sardegna e sono la proclamazione ufficiale del Regno
d’Italia, che segue la seduta del 14 marzo 1861 del Parlamento nella quale fu
votato il relativo disegno di legge: per acclamazione dalla Camera, con due
soli voti contrari al Senato. «Per volontà di Dio e della Nazione». La creatura
viene mostrata in pubblico sulla «Gazzetta ufficiale» sulla quale il 21 aprile
1861 quella legge diventa la legge n. 1 del Regno d’Italia.
La lunga gestazione era iniziata il 4
marzo 1848 quando re Carlo Alberto concesse la carta costituzionale, lo
«Statuto albertino», che durerà cento anni fino alla «Costituzione
repubblicana» che entra in vigore il 1° gennaio 1948. I travagli del parto
hanno attraversato le congiure mazziniane, le cinque giornate di Milano, le
guerre d’indipendenza e l’epopea dei Mille di Giuseppe Garibaldi fino al
bombardamento della fortezza di Gaeta dove Ferdinando II aveva tentato
l’ultima resistenza e si era arreso il 13 febbraio, decretando la fine dei
Borboni e del Regno delle due Sicilie, appena in tempo per non turbare
l’inaugurazione del primo Parlamento italiano, celebrata il 18 febbraio
nell’aula che l’architetto Amedeo Peyron aveva costruito in fretta e furia a
Torino nel cortile di Palazzo Carignano, già sede del Parlamento subalpino,
mentre il Senato era ospitato a Palazzo Madama.
Il mattino del 17 marzo 1861 Vittorio
Emanuele giunse fra due ali di folla festanti, tra squilli di fanfare e di
trombe e tra il rullare dei tamburi. Lesse ai 443 rappresentanti della Nazione
il discorso preparatogli dal primo ministro Camillo Benso di Cavour: «Signori
senatori, signori deputati, l’Italia confida nella virtù e nella sapienza
vostra!». Illusioni di gioventù, anche se di un re, anche se del primo re
d’Italia.
Nord, Centro e Sud – all’appello mancano
Roma e Venezia, Trento e Trieste – tornano insieme: non accadeva dalla caduta
dell’Impero Romano d’Occidente nel 476. Lo decide un’esigua minoranza: alle
prime elezioni nazionali del 27 gennaio 1861 aveva partecipato solo l’1,9 per
cento degli italiani, 240 mila maschi su 22 milioni di abitanti, con un carico
d’imposta di almeno 40 lire. L’Italia era fatta, ma senza i cattolici – perché
Pio IX, malauguratamente, proibisce loro di partecipare alla vita politica, di
votare e di essere votati – e senza le donne, gli analfabeti, i poveri e gli
evasori fiscali, insomma il restante 98,1 per cento della popolazione. Anche il
Senato era stato allargato a 263 personalità eminenti scelte dal Governo in
tutte le regioni. Restavano fuori i cortigiani del re di Napoli, i duchi
spodestati, i vescovi. Cavour, che pure aveva preso più voti di tutti, nel suo
collegio di Torino aveva ottenuto appena 620 suffragi, ma rappresenta quelle
minoranze decise a fare la Storia: conquistato il potere, la impongono alle
maggioranze inerti e il popolo continua a guardare. I padri fondatori pensano a
uno Stato liberale, alternativo alle monarchie assolute, e consegnano il
Parlamento alla borghesia e ai ceti benestanti, bloccando sul nascere il «ceto
rivoluzionario» rappresentato da Mazzini e Garibaldi. E così generazioni di
italiani sono cresciute nel culto di gesta alle quali il popolo aveva fatto da
spettatore.
Vittorio Emanuele aveva voluto
conservare il numeretto latino «II». Questo la dice lunga sull’idea che i
vincitori hanno dell’Italia, per indicare che l’epopea dei Savoia passava
dalla dimensione regionale a quella nazionale. I Savoia non pensano a un nuovo
Stato, ma a prolungare quello vecchio, le cui leggi, regolamenti, burocrazie e
forze armate vengono allargate e imposte alle altre regioni, con conseguenze
disastrose, soprattutto al Sud. Gli spaesati luogotenenti sabaudi, scesi nel
Meridione per governarlo come una colonia, devono appoggiarsi ai consiglieri
locali: per qualche mese ai vertici della polizia napoletana c’è il capo della
camorra.
Forse non si poteva fare meglio. Di
sicuro non può farlo una Camera e un Senato che pullulano di notabili
meridionali, che hanno i vizi narrati da Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne «Il
gattopardo» e sono i custodi gelosi dei propri privilegi. Da Torino a Palermo
comanda una Destra compatta, che rappresenta l’alta borghesia, guidata da un
genio assoluto della politica, il conte Camillo Benso di Cavour, che si spegne
nel suo palazzo torinese, a poche decine di metri dai palazzi del potere, alle
7 di giovedì 6 giugno 1861. Con Alcide De Gasperi si divide la palma del più
grande statista che l’Italia abbia avuto nella sua storia. Invece la Sinistra,
manco a dirlo, è divisa, come il genio che la guida: ha la testa in Mazzini e
il braccio in Garibaldi.
Per Torino si chiudeva una storia che era
iniziata molto tempo prima, se non proprio quando la città dei Taurini riuscì
a rallentare l’esercito di Annibale, almeno quando Emanuele Filiberto di
Savoia, detto «Testa di ferro», nel 1563 ne aveva fatto la capitale del suo
ducato che aspirava a cose grandi. Poi in tempi brevissimi, due anni, dalla
vittoria degli eserciti franco-piemontesi del 1859 all’incontro di Teano, di un
regno diviso in sette Stati, si è fatto un unico Regno. E Torino apriva
un’altra storia che la vede capitale per soli quattro anni.
L’Italia è nata e gli italiani devono
imparare a sentirla come figlia propria. Non sarà un’impresa facile, tanto è
vero che dopo centosessant’anni non ci siamo ancora riusciti.(Pier Giuseppe
Accornero)
https://vocetempo.it/litalia-unita-nasce-a-torino-l60-anni-fa/
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