L'eccidio delle Fosse Ardeatine fu l'uccisione di
335 civili e militari italiani, prigionieri politici, ebrei o detenuti comuni,
trucidati a Roma il
24 marzo 1944 dalle
truppe di occupazione tedesche come rappresaglia per
l'attentato partigiano di via Rasella,
compiuto il 23 marzo da membri dei GAP romani, in cui erano
rimasti uccisi 33 soldati del reggimento "Bozen" appartenente
alla Ordnungspolizei,
la polizia tedesca. L'eccidio non fu preceduto da alcun preavviso da parte
tedesca.[1]
Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime e per le
tragiche circostanze che portarono al suo compimento, l'eccidio delle Fosse
Ardeatine divenne l'evento-simbolo della durezza dell'occupazione tedesca di
Roma. Fu anche la maggiore strage di ebrei compiuta sul territorio italiano
durante l'Olocausto; almeno 75 delle vittime erano
in stato di arresto per motivi razziali.
Le Fosse Ardeatine, antiche cave di pozzolana situate
nei pressi della via
Ardeatina, scelte quale luogo dell'esecuzione e per occultare i cadaveri
degli uccisi, nel dopoguerra sono state trasformate in un sacrario-monumento
nazionale. Sono oggi visitabili e sono luogo di cerimonie pubbliche in memoria.
Occupazione tedesca di
Roma
Dopo l'armistizio di Cassibile, la fuga del re
Vittorio Emanuele III e l'ingresso nella capitale delle
truppe tedesche dopo gli sfortunati combattimenti di Roma (8-10
settembre 1943), il 12 settembre i
tedeschi assunsero il controllo effettivo della città, che era stata
dichiarata città aperta dal governo italiano il 14
agosto. Fin dai primi giorni dell'occupazione tedesca di Roma si
costituirono nella capitale gruppi di resistenza, in particolar modo il Fronte
militare clandestino ("Centro X"), diretto dal
colonnello Giuseppe
Cordero Lanza di Montezemolo, e nuclei comunisti, ai quali il
generale Carboni aveva fatto distribuire armi sin
dal 10 settembre.
Sottoposta pro forma alla
sovranità della RSI, mantenendo lo status di "città
aperta", Roma era in realtà governata di fatto solo dai comandi germanici
e lo divenne anche formalmente dopo lo sbarco di Anzio, il 22 gennaio 1944, quando l'intera
provincia romana venne dichiarata "zona di operazioni". Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante tedesco del fronte
meridionale, nominò capo della Gestapo di Roma, conferendogli
direttamente il controllo dell'ordine pubblico in città, l'ufficiale
delle SS Herbert Kappler, già resosi protagonista della razzia
del ghetto ebraico e della successiva deportazione,
il 16 ottobre 1943, di 1.023 ebrei
romani verso i campi di sterminio.
La campagna del terrore avviata da
Kappler, con frequenti rastrellamenti ed arresti di antifascisti e semplici
sospetti nelle varie carceri romane (fra cui il più tristemente famoso fu
quello di via Tasso), sgominò
nell'inverno 1943-44 quasi ogni gruppo della Resistenza romana, che si ritrovò
a perdere prima gli elementi militari, quindi quelli comunisti dissidenti di
"Bandiera
Rossa". Anche gli aderenti a "Giustizia e Libertà" e al Partito
Socialista e i sindacalisti socialisti (come Bruno Buozzi) subirono forti decimazioni negli
arresti compiuti dalle varie forze di polizie tedesche, dalla polizia italiana
fascista e dalle bande italiane sotto controllo germanico (come la Banda Koch). Solo i GAP comunisti riuscivano a
mantenere una buona efficienza operativa.
Il fatto che Roma venisse a trovarsi
nelle immediate retrovie del fronte ingenerò la convinzione che la città fosse
pienamente teatro di guerra. È in questo contesto che i quadri comunisti
della Resistenza romana giunsero
alla determinazione di reagire con le armi e di attaccare militarmente
l'occupante con un'azione che avesse un forte valore simbolico: venne infatti
scelto come data il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci
di combattimento.
L'attentato in via
Rasella
Il
23 marzo 1944 ebbe luogo un'azione di
guerra partigiana contro l'11ª compagnia del III battaglione del Polizeiregiment "Bozen" in via Rasella, per
iniziativa di partigiani dei Gruppi
di Azione Patriottica delle brigate Garibaldi, che
ufficialmente dipendevano dalla Giunta militare che era emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale.
Tale reparto fu segnalato come bersaglio
da Mario Fiorentini (nome di battaglia Giovanni),
poiché abitava nei pressi di via Rasella e da casa sua vedeva "passare
ogni pomeriggio" i militari "in pieno assetto di guerra". Giorgio Amendola, responsabile principale dei GAP,
indicò le direttive, ma lasciò quindi al comando partigiano "assoluta
libertà d'iniziativa",non per eventuali responsabilità dei soldati che vi
appartenevano. Il "Bozen" era costituito da soldati addestrati e
venne descritto dallo stesso Amendola come un "battaglione di
gendarmeria" che transitava in via Rasella "in pieno assetto da
guerra".
L'operazione fu portata a termine da 12
partigiani. Fu utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale, collocata
in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 kg di
esplosivo misto a spezzoni di ferro; dopo l'esplosione furono lanciate alcune
bombe a mano dai tetti delle case per ingannare e "onde dare l'impressione
che le bombe occorse per l'attentato alla colonna erano partite
dall'alto" dei palazzi (in cui vennero eseguiti i primi 100 arresti
di cittadini ignari). Rimasero uccisi 32 militari dell'11ª Compagnia del III
Battaglione del Polizeiregiment Bozen e un altro
soldato morì il giorno successivo. L'esplosione uccise anche due civili
italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera
Rossa, ed il tredicenne Piero Zuccheretti]
La rappresaglia
Processo decisionale
tedesco
La prima alta autorità ad arrivare in via Rasella dopo
l'attentato fu il questore Pietro Caruso; subito dopo giunse il
generale Kurt
Mälzer, comandante della piazza di Roma, che apparve sconvolto
dall'evento, diede in escandescenze e proclamò subito la volontà di procedere
alla "vendetta per i miei poveri kameraden". Il generale
parlò di distruggere tutto il quartiere e di eliminare gli abitanti; il
consigliere d'ambasciata Moellhausen e
il colonnello Kappler arrivarono poco dopo e cercarono di calmare il generale
Mälzer; il colonnello assicurò che avrebbe svolto un'inchiesta immediata per
appurare modalità e responsabili dell'attacco.
Il colonnello Eugen Dollmann, presente sul posto, affermò che
subito si parlò di rappresaglia. Il generale Mälzer avvertì anche
immediatamente il comando supremo tedesco in Italia, ma non riuscì a parlare
con il feldmaresciallo Kesselring, che si era recato nella testa di ponte
di Anzio; fu
quindi il capo ufficio operazioni, colonnello Dietrich Beelitz, che telefonò al
quartier generale di Rastenburg; Adolf
Hitler venne avvertito nel primo pomeriggio e dispose una
rappresaglia immediata "che avrebbe fatto tremare il
mondo". Hitler avrebbe parlato di uccidere da trenta a cinquanta
italiani per ogni soldato tedesco morto in via Rasella; peraltro non esistono
documenti che provino l'esistenza di un ordine diretto di Hitler con la precisa
determinazione dell'entità della rappresaglia.[
In realtà, la decisione di compiere la
rappresaglia fu presa durante una conversazione telefonica tra il generale
Mälzer, il colonnello Kappler e il generale Eberhard von Mackensen (comandante
dalla 14ª Armata), che era il superiore diretto del generale Mälzer poiché
responsabile della zona di guerra della testa di ponte di Anzio. Il generale
von Mackensen, che era a conoscenza delle pretese provenienti dal quartier
generale di Rastenburg, ritenne, dopo essersi consultato con il colonnello
Kappler, che fosse sufficiente fucilare dieci italiani per ogni tedesco morto
in via Rasella; inoltre il generale stabilì che le vittime della rappresaglia
avrebbero dovuto essere i cosiddetti Todeskandidaten (persone
da eliminare), ovvero i prigionieri detenuti a Roma già condannati a morte o
all'ergastolo e quelli colpevoli di atti che avrebbero probabilmente portato a
una condanna a morte.
La decisione finale venne presa in
serata, dopo il ritorno del feldmaresciallo Kesselring al suo posto di comando.
Egli apprese dal suo capo di stato maggiore, generale Siegfrid Westphal, i
dettagli dell'attentato di via Rasella e le varie opzioni di rappresaglia
discusse; quindi entrò in contatto telefonico con il generale Alfred Jodl a Rastenburg. Il feldmaresciallo
affermò che riteneva appropriato "compiere un'azione intimidatoria",
ma che considerava inattuabile una rappresaglia nelle proporzioni richieste da
Hitler; egli propose di applicare la proposta del generale von Mackensen di
uccidere dieci italiani per ogni caduto tedesco in via Rasella. Il generale
Jodl non entrò in dettagli e in pratica lasciò la decisione finale sull'entità
della rappresaglia alle autorità supreme tedesche in Italia; il feldmaresciallo
Kesselring concluse quindi il complesso processo decisionale tedesco
comunicando al generale von Mackensen di procedere alla rappresaglia dieci
contro uno con "esecuzione immediata".]
Il feldmaresciallo Kesselring in persona
ha chiarito nella sua testimonianza al processo nel novembre 1946 che non fu
attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla
popolazione o agli attentatori, che non venne emesso alcun avvertimento
pubblico riguardo alla rappresaglia e alla proporzione dieci contro uno e che
non fu presentata alcuna richiesta ai partigiani di consegnarsi per evitare
l'eccidio. Principale preoccupazione delle autorità tedesche a Roma fu la
necessità di eseguire con la massima rapidità, entro 24 ore, e nella segretezza
la rappresaglia, e la difficoltà di individuare nel poco tempo a disposizione
l'elevato numero di Todeskandidaten richiesto dalla
proporzione stabilita dal feldmaresciallo Kesselring e dal generale von
Mackensen.
Scelta dei condannati a morte[
Il generale Mälzer, subito dopo il primo
colloquio con il generale von Mackensen e ancor prima della decisione
definitiva del feldmaresciallo Kesselring, aveva incaricato il colonnello
Herbert Kappler di individuare la lista dei prigionieri italiani da eliminare;
essendo morti fino a quel momento ventotto soldati tedeschi a via Rasella, il
capo della Gestapo a Roma iniziò a raccogliere i nomi di 280 Todeskandidaten.
Il colonnello Kappler era consapevole della difficoltà di individuare in
brevissimo tempo un numero così elevato di persone; nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli egli disponeva di circa 290 prigionieri tra
uomini e donne, ma una parte non rientravano tra i già condannati a morte o tra
i colpevoli di reati passibili di condanna a morte; inoltre le donne vennero
subito escluse dalla rappresaglia. Il colonnello Kappler decise di richiedere
la collaborazione del questore Caruso che, dopo un incontro e alcune
discussioni, promise di fornire una lista di cinquanta prigionieri da inserire
nell'elenco dei Todeskandidaten.
Il colonnello Kappler prese in
considerazione la possibilità di includere nell'elenco anche i 75 ebrei
imprigionati in attesa di essere deportati; egli si consultò con il suo
superiore diretto, il generale Wilhelm Harster, comandante in capo della Polizia tedesca in Italia
con comando a Verona, che apparentemente
sollecitò il suo subordinato a completare la lista a tutti i costi, includendo
anche "tutti gli ebrei di cui avete bisogno". Il colonnello Kappler
ottenne anche l'approvazione al suo operato del giudice generale del Tribunale
militare tedesco a Roma, Hans Keller, che ritenne sulla base della legge
tedesca di autodifesa che la proporzione della rappresaglia fosse
appropriata. Il colonnello quindi attivò i suoi ufficiali, illustrò le
decisioni delle autorità superiori e diede inizio alla frenetica individuazione
dei nomi da inserire nell'elenco; il lavoro degli ufficiali della sezione della
Gestapo di Roma, diretto personalmente dal colonnello Kappler e dal suo
aiutante principale, capitano Erich Priebke, durò tutta la notte.
Il lavoro degli uomini del colonnello
Kappler divenne ancor più difficile dopo la notizia, arrivata nel corso della
notte, che il numero dei soldati tedeschi morti in via Rasella era salito a
trentadue; diveniva quindi indispensabile, per mantenere la proporzione
stabilita per la rappresaglia, individuare 320 italiani da condannare a morte.
Dalla ricerca iniziale emerse che i condannati a morte presenti nelle carceri
della Gestapo erano solo tre, membri della Resistenza comunista e azionista,
mentre gli uomini candidabili sulla base di accuse per reati passibili di
condanna a morte risultarono sedici. Il colonnello Kappler incluse subito anche
i 75 ebrei, ai quali aggiunse i nomi di altri otto antifascisti di religione
ebraica; dopo essersi recato alla caserma del Viminale, l'ufficiale
individuò altri dieci nomi, tra cui i fratelli Umberto ed Angelo Pignotti, il
loro cugino, figlio di una sorella del loro padre, Antonio Prosperi, nonché il
cognato di Angelo, Fulvio Mastrangeli, ritenuti dalle autorità di polizia
italiane "noti comunisti", compresi tra le persone rastrellate
sommariamente in via Rasella dopo l'attentato.
Nella notte la ricerca di altri Todeskandidaten continuò
sempre più frenetica; il capitano Priebke ha descritto come con il passare
delle ore si procedette ad un nuovo controllo degli elenchi dei detenuti ed
all'inserimento nella lista di uomini arrestati in attesa di giudizio per
"oltraggio alle truppe tedesche", per possesso di "armi da fuoco
o esplosivi" o perché presunti capi di "movimenti clandestini".
Il colonnello Kappler decise a questo punto di comprendere tra i
condannati Aldo Finzi, ebreo con un importante passato di amicizia e collaborazione con
Mussolini, e soprattutto il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, l'abile capo del
Fronte militare clandestino dell'esercito, e altri 37 militari italiani, tra
cui tre generali e tre ufficiali dei carabinieri, compresi due capitani che
avevano arrestato il Duce il 25 luglio
1943. Alle ore 3 del mattino del 24 marzo il colonnello Kappler, dopo aver
aggiunto alla lista il sacerdote accusato di "attività comuniste"
don Pietro Pappagallo, il partigiano
Marcello Bucchi e il professore di liceo accusato di "antifascismo"
Paolo Petrucci, ritenne, contando sui 50 nomi promessi dal questore Caruso, di
aver raggiunto finalmente il numero di 320 condannati a morte previsti dalla
rappresaglia
Alle ore 8 del mattino, tuttavia, il
questore Caruso non aveva ancora pronto il suo elenco; egli si era recato a
conferire con il ministro degli interni del regime di
Salò, Guido Buffarini Guidi, per richiedere
istruzioni e la sua approvazione alla compilazione della lista; il ministro si
mostrò poco interessato a prendere responsabilità dirette e si limitò ad affermare
che era inevitabile dare i nomi, "altrimenti chissà cosa potrebbe
succedere. Sì, sì, dateglieli!". Alle ore 9.45 Caruso ebbe un
incontro burrascoso in via Tasso con il colonnello Kappler, che pretese la
lista dei 50 nomi; al colloquio era presente anche Pietro Koch, capo della squadra speciale della
polizia fascista di Roma, che stava già preparando un suo elenco di persone da
condannare alla rappresaglia. Caruso apparve poco collaborativo; affermò di non
avere molti prigionieri e diede solo il nome di un medico condannato a morte
per mercato nero; egli quindi si allontanò seguito da Koch, che invece garantì
al colonnello che la lista con i 50 nomi sarebbe stata pronta entro le ore 14.
Il colonnello Kappler si incontrò alle
ore 12 con il generale Mälzer per riferire; era stato convocato anche il
maggiore Hellmuth Dobbrick (noto anche come Hans Dobek), comandante della
compagnia del Polizeiregiment Bozen colpita in via Rasella; il
generale, dopo essere stato informato dal colonnello Kappler sui progressi
nella compilazione della lista e sulle difficoltà dell'individuazione del
numero di italiani, ordinò al maggiore Dobbrick di eseguire personalmente con i
suoi uomini la rappresaglia. Il maggiore Dobbrick tuttavia rifiutò
espressamente di obbedire a questo ordine, affermando che i suoi soldati non
erano in grado, per sentimenti religiosi, di eseguire le fucilazioni "nel
breve tempo a disposizione". Con grande disappunto il generale Mälzer
dovette ricercare altri esecutori e in un primo momento consultò il colonnello
Wolf Rüdiger Hauser, capo di stato maggiore del generale von Mackensen, e
richiese un reparto di truppe per eseguire materialmente la rappresaglia. Il
colonnello Hauser tuttavia rifiutò a sua volta di farsi coinvolgere, affermando
che il compito spettava alla polizia tedesca che aveva subito l'attacco; il
generale Mälzer, sempre più in difficoltà, decise infine di assegnare direttamente
al colonnello Kappler e ai suoi uomini l'esecuzione delle fucilazioni; egli
stabilì inoltre che il capo della Gestapo a Roma avrebbe dovuto partecipare
personalmente per "dare l'esempio".
Esecuzione della
rappresaglia
Il colonnello Kappler, dopo aver ricevuto
gli ordini del generale Mälzer, ritornò in via Tasso, dove comunicò ai suoi
uomini che "entro poche ore" dovevano essere uccisi per rappresaglia
320 uomini. Tutti i componenti del reparto incaricato dell'azione, compresi gli
ufficiali, avrebbero dovuto partecipare alle esecuzioni come "necessario
atto simbolico". Il colonnello dovette affrontare rapidamente importanti
difficoltà tecniche legate alla modalità delle fucilazioni e al luogo di
esecuzione; egli disponeva in tutto di 74 uomini (tredici ufficiali, compreso
egli stesso, un soldato semplice e 60 sottufficiali); su proposta del capitano
Köhler, si decise di effettuare l'eccidio di massa in una serie di gallerie
sotterranee abbandonate in via Ardeatina. Dopo un sopralluogo del capitano con
genieri dell'esercito, la zona venne ritenuta idonea e facilmente occultabile
chiudendo con esplosivi le entrate delle gallerie. Il colonnello Kappler
stabilì che le uccisioni fossero dirette dal capitano Carl Schütz, che il
capitano Priebke controllasse la lista per verificare l'avvenuto completamento
delle uccisioni e che si impiegasse "non più di un minuto per ogni
uomo".
Ulteriori difficoltà sorsero verso le
ore 13, quando il colonnello Kappler apprese della morte del trentatreesimo
soldato tedesco in via Rasella; egli, deciso a eseguire con la massima
precisione la rappresaglia, secondo le tassative disposizioni delle autorità
superiori, prese l'iniziativa immediata e autonoma di comprendere nella lista
dei condannati a morte altri dieci uomini, presi tra un gruppo di ebrei che
erano stati arrestati nelle ultime ore dopo il completamento dell'elenco
iniziale. Intanto fin da mezzogiorno era iniziato il concentramento
dei Todeskandidaten. I prigionieri rinchiusi in via Tasso furono
condotti fuori dalle celle e radunati con le mani legate dietro la schiena; non
venne comunicata alcuna informazione sul destino che attendeva le vittime; il
colonnello Kappler e il capitano Schütz ritennero che, per evitare reazioni
pericolose dei prigionieri o della popolazione, difficilmente controllabili a
causa del ridotto numero di militari tedeschi disponibili, fosse preferibile
mantenere l'incertezza e la segretezza.
Poco prima delle 14 la colonna degli
autoveicoli con i prigionieri si mise in movimento e da via Tasso si diresse verso
via Ardeatina; il luogo era distante circa quattro chilometri. Le cave scelte
per l'eccidio erano ubicate tra le catacombe di
san Callisto e di Domitilla; attraverso tre
accessi si entrava in un labirinto di gallerie interconnesse, che misuravano da
trenta a novanta metri di lunghezza, quattro metri di altezza e tre metri di
larghezza. Prima dell'arrivo degli automezzi con i condannati, il capitano
Schütz si era recato sul luogo con i suoi uomini; si trattava di personale poco
esperto di armi e impiegato soprattutto in compiti burocratici di polizia e
repressione; egli illustrò in modo energico la loro missione; il colonnello
Kappler parlò agli ufficiali, affermando che il loro compito era legittimo e
che era indispensabile una loro partecipazione diretta per rinsaldare il morale
degli uomini.
Alle ore 15.30 arrivarono anche i
prigionieri provenienti da Regina Coeli e dopo pochi minuti ebbero inizio le
fucilazioni. I prigionieri, suddivisi in gruppi di cinque, vennero condotti nelle
gallerie illuminate da soldati tedeschi muniti di torce elettriche; all'entrata
del luogo di esecuzione il capitano Priebke richiedeva il nome al condannato e
controllava la lista; quindi le vittime venivano fatte inginocchiare e gli
esecutori, all'ordine del capitano Schütz, sparavano un colpo di pistola
dall'alto in basso all'altezza del collo; in questo modo si riteneva di
ottenere una morte immediata. Un soldato accanto all'esecutore illuminava la
scena con un'altra torcia. Il colonnello Kappler prese parte al secondo turno
di eliminazione; il capitano Priebke invece sparò con il terzo turno. In totale
furono effettuati 67 turni di esecuzioni; mentre all'inizio la procedura di
annientamento delle vittime sembrò avviarsi con precisione e disciplina, con il
passare del tempo la situazione divenne più confusa.
Alcune vittime cercarono di opporre
resistenza e dovettero essere sottomesse con la forza; la massa crescente di
cadaveri venne accatastata per lasciare spazio a disposizione; alla fine, per
accelerare i tempi, si decise di far salire le vittime e gli esecutori sopra lo
strato di cadaveri e si formarono pile di corpi. Alcuni carnefici non
eseguirono con precisione l'esecuzione; fu necessario sparare ripetutamente
sulla stessa vittima, molti corpi furono devastati e mutilati dai colpi, alcune
vittime non morirono istantaneamente. Per sostenere il morale dei suoi uomini
il colonnello Kappler prese parte a un secondo turno di esecuzioni; egli
convinse a sparare anche il tenente Wetjen, che in un primo tempo si era
rifiutato; tutti gli ufficiali, su ordine del colonnello, effettuarono una
seconda esecuzione; solo il sottotenente Günther Amonn, completamente
sconvolto, non riuscì a sparare e venne messo da parte.
Mentre procedeva l'eliminazione
sistematica delle vittime comprese nella lista tedesca del capitano Priebke, il
colonnello Kappler era in ansiosa attesa dell'arrivo dei cinquanta uomini che
avrebbero dovuto essere forniti dal questore Caruso; quest'ultimo aveva
continuato a cercare di guadagnare tempo e non aveva ancora completato la
lista. Alle ore 16.30 il tenente Tunnat e il sottotenente Kofler arrivarono a
Regina Coeli e pretesero immediatamente i cinquanta prigionieri; dato che la
lista di Caruso non era ancora arrivata, il tenente Tunnat radunò sommariamente
i prigionieri a caso; vennero prelevati alcuni che erano effettivamente
compresi nell'elenco del questore, ma vennero anche condotti alla morte dieci
detenuti estranei in procinto di essere rilasciati. Il tenente Tunnat
condusse alle cave ardeatine circa trenta uomini e dopo alcune ore ritornò a
Regina Coeli dove era arrivata la lista di Caruso; l'ufficiale tedesco prese
gli ultimi venti detenuti, che arrivarono alle cave ardeatine quando ormai era
sera; le ultime venticinque esecuzioni terminarono alle ore 20. Il colonnello
Kappler al termine dell'eccidio parlò ai suoi uomini, ammettendo che era
"stato molto difficile", ma affermò che "la rappresaglia era
stata eseguita" in applicazione delle "leggi di guerra".
Durante l'esecuzione dei Todeskandidaten,
il capitano Priebke aveva accuratamente controllato la lista, procedendo alla
verifica del numero delle vittime; al termine dell'eccidio l'ufficiale rilevò
che erano presenti, a causa della confusione dell'azione finale di
rastrellamento dei condannati a morte, cinque uomini in più del numero previsto
di 330. Il colonnello Kappler, informato dal capitano Priebke, decise di
procedere all'eliminazione anche di questi ostaggi in più con la motivazione,
riferita dal maggiore SS Karl Hass durante il secondo processo del
dopoguerra, che fosse inevitabile ucciderli perché "avevano visto
tutto".
Lo storico tedesco Gerhard Schreiber, stigmatizzando "efferatezza e
furia vendicativa" dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, ha scritto che
"la messa in pratica dell'esecuzione può soltanto essere definita
bestiale".
Tentativo di
occultamento e commemorazione
Al termine della procedura di
annientamento delle vittime, i soldati del genio tedeschi minarono gli accessi
alle gallerie e fecero esplodere le cariche sbarrando le entrate; in questo
modo il colonnello Kappler intendeva mantenere l'assoluta segretezza
sull'eccidio. Le esplosioni finali furono udite da alcuni religiosi salesiani presenti nelle
vicinanze che fungevano da guide alle catacombe; i salesiani avevano osservato
durante l'intera giornata il frenetico movimento di automezzi tedeschi nella
zona; nella notte il gruppo approfittò per entrare nelle cave per vedere cosa
stesse succedendo e si trovò di fronte ad uno spettacolo orrendo: all'interno
delle cave i cadaveri erano rimasti ammassati in gruppi alti oltre un metro e
mezzo.
A trenta giorni dall'eccidio, la sera
del 24 aprile 1944, un gruppo di partigiani di Bandiera
Rossa volle commemorare i compagni uccisi, andò all'ingresso della cava,
disarmò gli uomini della Polizia
dell'Africa italiana che erano stati posti di guardia allo scopo di
impedire azioni commemorative, ed espose un cartello con scritto: «I partigiani
di Bandiera Rossa vi vendicheranno».
Reazioni all'eccidio
L'Alto comando tedesco diramò alle ore
22.55 del 24 marzo un comunicato, trasmesso dall'Agenzia Stefani, che, dopo
aver descritto l'attentato di via Rasella, "imboscata eseguita da
comunisti-badogliani", proclamava la volontà di "stroncare l'attività
di questi banditi" e rivelava di aver ordinato che "per ogni tedesco
ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati" e concludeva con la
frase inequivocabile "l'ordine è già stato eseguito". I
quotidiani romani riportarono il comunicato nella loro edizione di mezzogiorno
del 25 marzo. Mussolini discusse telefonicamente con il ministro Buffarini
Guidi riguardo al tragico eccidio; egli apparve soprattutto preoccupato per la
possibile reazione della popolazione di Roma; il Duce giustificò la
rappresaglia: ai tedeschi "non si può rimproverare nulla...la rappresaglia
è legale, è sancita dai diritti internazionali.
La convenzione
dell'Aia del 1907 proibisce la rappresaglia, mentre la Convenzione di Ginevra del 1929,
relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, fa esplicito divieto di atti
di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra nell'Articolo
2. Dal punto di vista internazionale l'argomento rappresaglia era
contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui si faceva
riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa
subita, della selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia
delle popolazioni civili. Nessuno di questi criteri, comunque, fu rispettato
dai tedeschi: la rappresaglia fu del tutto sproporzionata; nessuno degli uccisi
aveva alcunché a che fare con l'attentato; nella selezione degli ostaggi si
procedette alla fucilazione anche di personale sanitario, infermi e malati,
nonché di civili inermi del tutto estranei alla Resistenza, molti dei quali
selezionati solo in quanto ebrei; inoltre non risulta che sia stata eseguita da
parte tedesca alcuna seria indagine per appurare l'identità dei responsabili
dell'attacco.
Dalle salme identificate (327 su 335) si
ricava che delle vittime circa 39 fossero ufficiali, sottufficiali e soldati
appartenenti alle formazioni clandestine della Resistenza militare, circa 52
erano gli aderenti alle formazioni del Partito d'Azione e di Giustizia e
Libertà, circa 55 a Bandiera
Rossa (un'organizzazione comunista non legata al CLN), 19 erano fratelli
massoni (tra cui 3 anarchici tutti iscritti all'Unione sindacale italiana:
Manlio Gelsomini, Umberto Scattoni e Mario Tapparelli) appartenenti indistintamente
sia dell'Obbedienza di Palazzo Giustiniani sia a quella di Piazza del
Gesù, e circa 75 erano di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il
numero previsto, furono detenuti comuni. Non mancarono tuttavia tra gli uccisi
i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell'ultim'ora,
come il giovane pugile Lazzaro Anticoli, detto "Bucefalo", arrestato
in seguito alla delazione di una correligionaria, Celeste Di Porto, detta "Pantera Nera", finito
alle Fosse Ardeatine al posto del fratello della giovane.
Vittime
Nell'eccidio furono uccise 335 persone:
154 persone a disposizione dell'Aussenkommando, sotto inchiesta di
polizia; 23 in attesa di giudizio del Tribunale militare tedesco; 16 persone
già condannate dallo stesso tribunale a pene varianti da 1 a 15 anni; 75
appartenenti alla comunità ebraica romana; 40 persone a disposizione della
Questura romana fermate per motivi politici; 10 fermate per motivi di pubblica
sicurezza; 10 arrestate nei pressi di via Rasella; una persona già assolta dal
Tribunale militare tedesco; sette persone tuttora non identificate
https://it.wikipedia.org/wiki/Eccidio_delle_Fosse_Ardeatine
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