Ogni tanto capita a tutti, pare. C’è
chi lo confessa a bassa voce, come se fosse un peccato, chi lo nasconde perché
se ne vergogna, chi, invece, lo annuncia urbi
et orbi perché ha fa della lagnanza e del lamento le proprie cifre
stilistiche. Quando succede a me, cado nel pozzo in silenzio. E mi sento
terribilmente in colpa e ingrata perché di rado ho ragioni oggettive e
convincenti per lasciarmi inghiottire da quel senso di tristezza, di sconfitta
e di apocalisse che ogni tanto ci coglie tutti, pare. L’ultima volta che mi è
successo risale a qualche settimana fa. Per alcuni giorni mi sono sentita fuori
posto. Avevo freddo anche se faceva caldo, mi interrogavo sul senso del mio
andare senza trovarlo, vedevo il mondo a tinte grigie e marroni e, piano piano
ma inesorabilmente, mi rimpicciolivo. E no, non si trattava della sindrome
premestruale, condanna e insieme alibi per dolori, malumori e nefandezze verso
cose e persone. Era sera, mio marito era via per lavoro e me ne stavo torva,
derelitta e accigliata tra le lenzuola del lettone, a ruminare il mio
malcontento. Priva di ogni ritegno estetico, indossavo un’inguardabile e
informe tutona da ginnastica, in una riuscitissima e quanto mai respingente,
interpretazione dell’iconografia della prostrazione. D’improvviso, da uno
spiraglio della porta semichiusa, hanno fatto capolino una testa arruffata e
due occhi stralunati e tondi, da civetta. “Posso venire un po’ vicino a te?”.
Era il figlio di mezzp, scalzo e stropicciato. “Certo, vieni”, ho risposto
ricomponendomi alla bell’e meglio e riemergendo in fretta e furia dal catrame
in cui sguazzavo malmostosa. “Ho i pensieri”. “Quali pensieri?”. “Pensieri
brutti. Ma ora sono andati via. Meno male che ci sei tu. “ Posso dormire qui?”.
“Certo. Basta che mi prometti di non fare il sonnambulo che mi fai paura”. “Ok.
Ci provo”. “Grazie”. Ignaro delle mie paturnie, si è accoccolato, incuneandosi
tra le, ahimè, scarse rotondità materne. Ha dichiarato: “Io, con te, mi sento
protetto e al sicuro” e, senza soluzione di continuità, ha cominciato a russare
rumorosamente. Quando avevo 10 anni ,l’età di mio figlio di mezzo oggi, era
alla porta di mia madre che andavo a bussare quando mi venivano i brutti
pensieri. E a 15, 20, 25? A chi mi rivolgevo, quando prendere una decisione
importante e la vita mi pareva più grande d me? A mia madre. Chiedevo a lei,
incurante dei suoi malumori, dei suoi tutoni inguardabili (deve per forza
averli indossati pure lei, ogni tanto, no?) delle crepe del suo quotidiano.
(..). I riferimenti, gli affetti, le responsabilità cambiano e crescono.
Eppure, forse, le colonne di ieri restano quelle di oggi. Le impronte dei
nostri passi acerbi, alla ricerca di un riparo dai brutti pensieri, lasciano
tracce indelebili che continuiamo a seguire con i nostri piedi grandi che pure
hanno battuto e conosciuto altre strade. Fare capolino, disarmati e
sbrindellati, nelle stanze altrui è una pratica necessaria e salvifica. Fare
spazio sotto le proprie lenzuola etra i propri pensieri a turbamenti e
interrogativi non nostri ci distoglie dal nostro ombelico e ci obbliga a
crescere. E’ una catena virtuosa e vitale, è un esercizio di fiducia e
accoglienza, p la corda che ci tira fuori dai nostri pozzi. Perché l’altro è
l’ubi maior che ci distoglie da noi e ci consente di andare avanti.
elasti@repubblica.it - Donna di Repubblica – 29 Luglio 2016
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