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sabato 6 agosto 2016

Speciale: Come fanno le mamme a uscire dal buio...



Ogni tanto capita a tutti, pare. C’è chi lo confessa a bassa voce, come se fosse un peccato, chi lo nasconde perché se ne vergogna, chi, invece, lo annuncia urbi et orbi perché ha fa della lagnanza e del lamento le proprie cifre stilistiche. Quando succede a me, cado nel pozzo in silenzio. E mi sento terribilmente in colpa e ingrata perché di rado ho ragioni oggettive e convincenti per lasciarmi inghiottire da quel senso di tristezza, di sconfitta e di apocalisse che ogni tanto ci coglie tutti, pare. L’ultima volta che mi è successo risale a qualche settimana fa. Per alcuni giorni mi sono sentita fuori posto. Avevo freddo anche se faceva caldo, mi interrogavo sul senso del mio andare senza trovarlo, vedevo il mondo a tinte grigie e marroni e, piano piano ma inesorabilmente, mi rimpicciolivo. E no, non si trattava della sindrome premestruale, condanna e insieme alibi per dolori, malumori e nefandezze verso cose e persone. Era sera, mio marito era via per lavoro e me ne stavo torva, derelitta e accigliata tra le lenzuola del lettone, a ruminare il mio malcontento. Priva di ogni ritegno estetico, indossavo un’inguardabile e informe tutona da ginnastica, in una riuscitissima e quanto mai respingente, interpretazione dell’iconografia della prostrazione. D’improvviso, da uno spiraglio della porta semichiusa, hanno fatto capolino una testa arruffata e due occhi stralunati e tondi, da civetta. “Posso venire un po’ vicino a te?”. Era il figlio di mezzp, scalzo e stropicciato. “Certo, vieni”, ho risposto ricomponendomi alla bell’e meglio e riemergendo in fretta e furia dal catrame in cui sguazzavo malmostosa. “Ho i pensieri”. “Quali pensieri?”. “Pensieri brutti. Ma ora sono andati via. Meno male che ci sei tu. “ Posso dormire qui?”. “Certo. Basta che mi prometti di non fare il sonnambulo che mi fai paura”. “Ok. Ci provo”. “Grazie”. Ignaro delle mie paturnie, si è accoccolato, incuneandosi tra le, ahimè, scarse rotondità materne. Ha dichiarato: “Io, con te, mi sento protetto e al sicuro” e, senza soluzione di continuità, ha cominciato a russare rumorosamente. Quando avevo 10 anni ,l’età di mio figlio di mezzo oggi, era alla porta di mia madre che andavo a bussare quando mi venivano i brutti pensieri. E a 15, 20, 25? A chi mi rivolgevo, quando prendere una decisione importante e la vita mi pareva più grande d me? A mia madre. Chiedevo a lei, incurante dei suoi malumori, dei suoi tutoni inguardabili (deve per forza averli indossati pure lei, ogni tanto, no?) delle crepe del suo quotidiano. (..). I riferimenti, gli affetti, le responsabilità cambiano e crescono. Eppure, forse, le colonne di ieri restano quelle di oggi. Le impronte dei nostri passi acerbi, alla ricerca di un riparo dai brutti pensieri, lasciano tracce indelebili che continuiamo a seguire con i nostri piedi grandi che pure hanno battuto e conosciuto altre strade. Fare capolino, disarmati e sbrindellati, nelle stanze altrui è una pratica necessaria e salvifica. Fare spazio sotto le proprie lenzuola etra i propri pensieri a turbamenti e interrogativi non nostri ci distoglie dal nostro ombelico e ci obbliga a crescere. E’ una catena virtuosa e vitale, è un esercizio di fiducia e accoglienza, p la corda che ci tira fuori dai nostri pozzi. Perché l’altro è l’ubi maior che ci distoglie da noi e ci consente di andare avanti.
elasti@repubblica.it  - Donna di Repubblica – 29 Luglio 2016

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