“Vi piace questa?”, avevo chiesto alzando al massimo il volume. Era inizio
giugno, la festa di compleanno dei tredici anni di mia figlia Anita era appena
terminata e stavo tornando a casa con lei e due sue amiche da riaccompagnare.
Un po’ per buon umore da genetliaco, un po’ per ansia da prestazione
genitoriale e malcelato giovanilismo, la voglia di provare a scalfire i gusti
musicali delle millennials in auto con qualcosa di più maturo di quanto da loro
solitamente scontato, ma coatto e potente il giusto per coinvolgerle, mi aveva
preso la mano. Divertite dal mio sincero entusiasmo e da qualche improvvisa
coreografia da semaforo, le pargole mi avevano lasciato fare per due o tre
brani. Poi, implacabili, con l’irresistibile forza del ricatto morale, erano
partite le richieste. E se un tempo si faceva presto a declinare le avances più
sconce opponendo l’orgoglio, la storia e la qualità della propria discografia
frutto di anni di faticosa ricerca, ora, con Spotify collegato allo stereo, la
difesa dei costumi e del buon gusto diventa questione di resistenza morale ed
esempio che si vorrebbe dare ai più giovani. Ma resistere al millennials è
pratica futile e vana, tanto vale sapere, conoscere, arrancare al passo coi
tempi, anche perché non sarà certo il tuo momentaneo muro di gomma di padre ad
impedire l’ascolto del tormentone del momento al figlio dotato di telefonino.
“Metti “Andiamo a comandare” mi
avevano chiesto in coro “oppure Vorrei ma
non posto”, Sudando alla guida, chiedevo altre due o tre volte il titolo,
ma soprattutto il nome degli autori. Su J-Ax ho barcollato, su Fedez ho
discusso e mi sono opposto, quindi ho ceduto all’incognita. “Rovazzi si
chiama?”. “Rovazzi”, confermavano in coro le fan degli One Direction per un
attimo scese a più miti cognomi. E hanno iniziato a urlare. Che andavano a
comandare. Col trattore in tangenziale. In ciabatte nel locale, spacciando
acqua minerale, da astemi e senza farsi canne, come recita il non cantante Rovazzi,
il tutto scrollando le spalle a faccia in su non appena è partito il contagioso
tormento dei bassi. Ecco, ora sono due mesi che se accenno un ritmo o tre note
in croce, qualsiasi cosa io stia facendo si tratta di questo pezzo senza senso.
Proprio come quando a 13 anni ballavo i Righeira e dicevo Vamos a la playa,
convincendomi che fosse un testo impegnato contro il rischio nucleare. Mia
figlia, almeno, nemmeno ci prova a vendermi Rovazzi come maitre à penser. Scrolla le spalle, guarda in alto e ride. Io con
lei.
Diego Bianchi – Il Sogno di Zoro - Il Venerdì di Repubblica – 19 agosto2016 -
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