Insegno da 25 anni in un liceo scientifico e
in questo lungo periodo ho visto cambiare me stessa, i giovanissimi, il loro
modo di comunicare fra loro e con noi. Ho dovuto comprendere che il gap
generazionale fra me e gli alunni, che di anno in anno si andava allargando a
causa del mio progressivo invecchiamento , poteva essere in qualche modo
colmato prestando maggior attenzione al loro linguaggio, non solo per censurare
i difetti, ma per non chiudere i canali della comunicazione con loro. Oggi con
ciascuna delle mie classi intrattengo rapporti epistolari pomeridiani tramite
whatsapp, strumento abusato dai più, ma in questo caso utile per segnalare
letture o visioni di programmi in tempo reale, per risolvere problemi di
studio, per comprendere difficoltà estemporanee. Alcuni mei colleghi non
condividono questa disponibilità illimitata di tempo e di energie, ma
considerando che i nostri alunni sono in continua e fittissima connessione, non
vedo perché non cercare di far parte del loro mondo intellettuale ed emotivo,
sfruttando per nobili fini la deriva tecnologica che tano sta togliendo alla
qualità dei rapporti umani oggi. Regina
Sassanelli reginasassanelli@live.it
Che bella idea ha avuto, cara
professoressa. E’ andata a cercare i suoi studenti là dove sono connessi con i
loro telefonini e i loro computer, più di quanto non siano connessi in classe.
E mediante questa connessione
informatica lei riesce a imparare il loro linguaggio e, attraverso il
linguaggio, scoprire i loro modi di essere, di pensare, di sentire, così
diverso e così lontani dai nostri. E’ un lavoro, questo, che neppure i genitori
fanno con i loro figli, ed è encomiabile che lo faccia un’insegnante con i suoi
alunni. E’ovvio che i suoi colleghi la critichino per la sua disponibilità di
tempo e di energie , perché per loro evidentemente la scuola è un “lavoro”, e
come ogni lavoro affatica, quindi non capiscono perché alla fatica mattutina
bisogna aggiungerne una pomeridiana. Ci sono però dei lavori che non impegnano
solo il nostro fare, ma soprattutto il nostro essere. Tale è il lavoro del
medico, del prete, dell’artista, dello scrittore, e del professore. Questo non
significa che tali lavoro non affatichino, ma sono assolutamente convinto che
affaticano molto di più se il nostro essere resta estraneo al nostro fare.(..).
Può solo immaginare i benefici che questi ragazzi ricevono nell’essere guardati
non solo come componenti di una classe, ma come individui degni di attenzione
nella loro individualità. Magari per la prima volta proprio a scuola, dove le individualità
sono spesso trascurate o semplicemente non viste. (..) Giusto per fare un
esempio, Kant diceva che spazio e tempo sono due intuizioni a priori senza le
quali è impossibile fare esperienza, ma l’informatica, accorciando lo spazio
fino ad annullarlo nell’assoluto presente, ha trasformato in modo radicale la
modalità con cui i giovani fanno esperienza , rendendola decisamente diversa da
quella di quanti sono cresciuti in epoca pre-informatica , quando spazio,
tempo, corpo e comunicazione avevano uno spessore materiale e non virtuali.
Sono sicuri gli insegnanti, di poter comunicare con efficacia e soprattutto di
essere capiti senza entrare nel mondo esperienziale dei giovani, che ogni
mattina hanno davanti agli occhi? Oppure, anche per questa mancanza di un modo
comune, rischiano di non vederli? Non lo
dico per fare un’apologia dell’informatica e del mondo virtuale, che purtroppo
ha sostituito quello reale. Ma per prendere atto che questa sostituzione è
avvenuta. E poiché è stata la più grande rivoluzione della storia e ha
collocato i giovani, a loro stessa insaputa, come pesci in una “rete”, è
proprio lì che i professori devono andare a “prenderli”. Con la dedizione e la
cura mostrate in questa lettera che lei mi ha scritto.
umbertogalimberti@repubblica.it
– 30 luglio 2016 -
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