Il genetista Giuseppe
Remuzzi ha scritto recentemente (su La
Lettura) che gli scienziati oggi sobo in grado di fare “gene editing”:
hanno imparato cioè a modificare il genoma, si può addirittura sostituire una
parte di Dna – quella che contiene la variante genetica che si vuole eliminare
– con una sana. Lo faranno davvero? E perché? Il professor Remuzzi pensa di sì,
senza dubbio: con l’obiettivo di correggere anomalie genetiche. Chi è contro il
gene editing per principio usa però
come argomento la domanda “dove poniamo il confine?”. In altre parole, chi
decide che cos’è la malattia , la patologia da “correggere”? E il libero
arbitrio: dove lo mettiamo? E’ giusto interferire con il corredo genetico di
qualcuno? Tutto questo esula dalla competenza della scienza, conclude Remuzzi:
è materia per filosofi. E allora eccoci a lei: che cosa ne pensa? Riccardo Zezza riccardo.zezza@gmail.com
Quando
un problema non offre facili soluzioni si passa la palla ai filosofi,
probabilmente in quanto si presume che siano e in materia di etica. Anche se
tutti sappiamo che, di fonte alla tecnica, l’etica celebra la propria
impotenza, perché come può impedire alla tecnica che può di fare ciò che può?
Nella storia non si è mai visto che una potenza rinunci all’esercizio della sua
potenza. Oggi l’etica si trova promuovere o interdire, in nome di valori resi
instabili dal crollo delle ideologie e dalla rapida trasformazione che il mondo
ha subito in questi anni, ciò che la tecnica comunque rende possibile. L’”agire”,
come scelta dei fini a cui si rivolge l’etica, cede al “fare” come produzione
di risultati a cui si applica la tecnica. In questo senso la tecnica celebra
l’impotenza dell’etica, la definitiva subordinazione dei “fini” ai “mezzi” che
rendono possibili risultati fino a quel tempo inimmaginabili. Fuori da questo stringente
ragionamento, a cui la tecnica ci obbliga, restano solo le chiacchiere, le
implorazioni, le indignazioni e nient’altro. L’unico limite che tecnica ha oggi
(un limite provvisorio che in futuro sarà superato) è costituito dall’economia,
a cui da tempo la politica ha ceduto il suo potere decisionale. Se dunque le
novità rese possibili dalla tecnica sono molto richieste e quindi
economicamente vantaggiose, esse verranno realizzate a prescindere dalle
rimostranze dei difensori dei valori etici. (..). Per non spaventare nessuno si
dice che questo serve a correggere patologie altrimenti irreversibili. Ma
naturalmente quel che serve a chcorreggere patologie può anche servire a
ridurre segmenti del comportamento umano al livello di parti di macchine
regolate da modifiche genetiche programmate, in grado di garantire, meglio
delle norme etiche interiorizzate o sanzionate dalla forza, i comportamenti
attesi o funzionali alle esigenze della razionalità tecnica che, più si
diffondono, più sono percepite come esigenze “naturali”. Quanto poi al “libero
arbitrio”, non esageriamone la portata e non usiamo troppa enfasi. Perché, anche
senza interventi sul nostro Dna, la genetica non lascia spazio al nostro
arbitrio, e dal canto suo l’ambiente, citato di solito per attenuare il
determinismo genetico, non è meno vincolante, se è vero che quanto sono nato
non ho scelto dove né quando, non ho scelto i miei genitori né l’educazione che
mi hanno impartito e che mi ha condizionato, né ho scelto i casi della vita che
mi hanno fatto assumere una direzione piuttosto che un’altra. E soprattutto non
ho scelto la mia identità, da cui dipendono i miei comportamenti che, come
quelli di tutti, sono alla base della fiducia e affidabilità sociale proprio
perché non cambiano secondo l’estro della nostra presunta libertà.
umbertogalimberti@repubblica.it - Donna di Repubblica – 23 luglio 2016
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